24 luglio 2013 – Tanti ricorderanno il Gordon Gekko di “Wall Street” interpretato da Michael Douglas, che critica il management di una compagnia cartaria davanti ai suoi azionisti. Forse il regista Oliver Stone ha anticipato il comportamento di tanti investitori statunitensi che, oggi, sono i numeri uno in termini di azionariato attivo. Nel senso che battono nettamente i colleghi europei, arenati sulle trattative private vecchio stile, nella speranza di cambiare la strategia aziendale e incrementare così il valore delle azioni.

Secondo una ricostruzione proposta nei giorni scorsi da Reuters, azionisti e management delle realtà americane sembrano non parlar d’altro, visto e considerato che «il livello di dialogo su questo argomento è il più alto che abbiamo visto da molto tempo», afferma Gilberto Pozzi, che in Goldman Sachs è a capo della divisione fusioni e acquisizioni per Europa, Medio Oriente e Africa. Una tendenza confermata dagli analisti inglesi di Activist Insight che dal 2012 ha registrato in Usa ben 323 accordi «alla luce del sole» (nella sua accezione positiva, sia chiaro), contro gli 81 del vecchio continente.

Perché questo divario? Secondo il presidente dell’hedge fund londinese Centaurus Bernard Oppetit, la colpa è di una «differente mentalità». In concreto, prosegue il chairman di Centaurus, in Europa «c’è un tacito consenso sull’idea che gli azionisti di minoranza non dovrebbero avere voce in capitolo nella gestione societaria, e sono liberi di vendere se scontenti». Dell’analisi di Oppetit bisogna fidarsi, visto che Centaurus è stato negli anni un fondo attivista molto duro, e ora sembra aver rinfoderato i coltelli, preferendo la linea morbida. Lo stesso han fatto altri investitori, preoccupati da anni di azioni eclatanti che in Europa hanno visto risultati contrastanti. In molti casi, le guerre interne si son mangiate il valore delle azioni o hanno estromesso gli investitori, invece di operare i cambiamenti che questi ultimi chiedevano. Ne è un esempio la querelle per il controllo della svizzera Actelion. Nel 2011 l’hedge fund Elliott Advisers invitò l’azienda di biotecnologie a rinnovare un board ritenuto colpevole di scelte rischiose. Sconfitto il fondo, le azioni Actelion non ebbero vita facile, scendendo del 40 per cento. Stessa sorte toccò alla scissione tra poste olandesi e il corriere Tnt, promossa dall’azionariato attivo. Operazione che provocò una perdita nel valore delle azioni. Invece l’asset manager inglese F&C, ha visto crescere del 96% le sue azioni, da quando nell’agosto 2010 l’attivista Sherborne Investors cominciò a rastrellare titoli F&C sul mercato.

Una cosa è certa. Sotto traccia o meno, gli “activist hedge funds”, i fondi speculativi dediti all’azionariato attivo, riscuotono sempre più successo. Dati Preqin alla mano, a metà 2013 il 2,5% degli investitori ha destinato risorse a questo genere di hedge, in netto aumento rispetto all’1,6% dello stesso periodo 2012. Sono fondi che, sempre secondo la società di consulenza Preqin, gestiscono asset stimati in 129 miliardi di dollari. Si tratta di realtà anticicliche, come dimostra il ritorno economico del 14% registrato nel 2012, a differenza del meno 13% delle società europee a maggiore capitalizzazione dell’Euro Stoxx 50.

Tra dubbi e pratiche moralmente discutibili in giro per il mondo, l’Italia può vantare un pioniere dell’azionariato attivo: Etica sgr, la società di gestione del risparmio di Banca Etica. Nel 2013 Etica sgr, in un progetto di cui ETicaNews è stata partner, ha rinnovato il suo impegno nel cercare di confrontarsi con le società in cui investe, con la partecipazione alle riunioni degli azionisti.

Paolo Ballanti

 

A cura di ETicaNews