25 febbraio 2013 – Venerdì scorso, in piena settimana delle sfilate milanesi, è stato presentato un libro ad alto potenziale nel campo della sostenibilità. Non solo per ciò che illustra, quanto per ciò che sottintende. E per chi sottintende. Il volume è edito da Egea (la casa editoriale della Bocconi) e scritto da due docenti della stessa università, Francesca Romana Rinaldi e Salvo Testa. Il titolo: “L’impresa moda responsabile”.

Si tratta probabilmente del primo volume in cui vengono analizzate le strategie e le dinamiche della Csr con specifico focus su un settore. La moda, appunto. Questo è un punto importante, a favore del libro, in quanto le aziende di moda italiane appaiono le più in ritardo nei confronti di tematiche di corporate social responsibility. Ma questo, come detto, non è il punto più forte del lavoro.

Il messaggio forte è in controluce. È un’intuizione accennata nel sottotitolo: “Integrare etica ed estetica nella filiera”. Cosa si intenda, fisicamente e metafisicamente, con la parola estetica (per giunta affiancata al concetto di etica) è un’operazione ardita da secoli. Tuttavia, nella moda assume un significato interessante.

Al di là di tutte le analisi sulla gestione della Csr nelle declinazioni ambientali, sociali e di governance, e dei numerosi esempi che vengono citati e rilanciati, il libro porta sotto i riflettori un tema cruciale: è cambiato il consumatore, e prima o poi anche quello di moda si accorgerà della sostenibilità, anzi, cercherà (e pagherà di più) i prodotti con un’etichetta “responsabile”. Si verificherà ciò che è già avvenuto in altri comparti, come il food, dove «prodotti artigianali e di alta qualità – si legge nella presentazione del libro – stanno cambiando radicalmente il modello di consumo, con un ritorno a valori, significati e metodiche produttive dell’era preindustriale che garantiscono la qualità e l’esclusività del prodotto e anche la sua tracciabilità, senza nostalgie per il passato, ma, anzi, incorporando nuove esigenze e nuove tecnologie nel prodotto, nella comunicazione e nella distribuzione».

Si va, insomma, verso una Csr che diventa un tratto estetico del prodotto, ossia una sua caratteristica che “richiama” l’attenzione (sensoriale e valoriale, dunque “aesthetica”) del consumatore.

E qui cominciano i sottintesi forti: cosa e chi manca all’appello.

Il libro descrive il consumatore oggi più sensibile a queste tematiche. Ebbene, questo tipo di individui è indentificato con il termine Lohas, acronimo di Lifestyles of Health and Sustainability. Non è un caso che la parola sia inglese: analisi sui Lohas in Italia non vengono riportate.

Anche in termini di eventi che promuovano la cultura dei Lohas, l’Italia non è all’avanguardia. Gli autori riportano diverse manifestazioni fieristiche nazionali che iniziano ad aprire sezioni alla moda sostenibile. Tuttavia, il libro evidenzia che, al di là di iniziative istituzionali come il manifesto per la Sostenibilità della Camera nazionale della moda, ci sono poche spinte (al pari di quelle che ci sono nel nord Europa) ad accrescere la consapevolezza di queste tematiche. Ed è un chiaro problema, visto che, spiegano i due professori della Bocconi, i tre punti cruciali perché si affermi la moda sostenibile sono: al primo posto la consapevolezza; poi la trasparenza; infine, l’offerta.

Le aziende del lusso e della moda italiane non si pongono l’obiettivo di diffondere questa consapevolezza. In coerenza con questa scelta, resta pressoché nulla l’offerta di prodotti sostenibili. Sembra il paradosso che vive la finanza italiana. Tra le prime, una decina d’anni fa, a inventarsi i fondi etici e responsabili. Fra le ultime (tuttora) a sviluppare una vera offerta di prodotti al retail, capace di rendere quest’ultimo un vero mercato, e di rendere la finanza Sri un vero business.

Eppure, come sta dimostrando la finanza Sri mondiale, nella responsabilità possono esserci numeri da capogiro.

Inoltre, la moda italiana avrebbe un vantaggio di posizione enorme nel promuovere un mercato della moda sostenibile. Anzi, nel divenire la capitale del lusso sostenibile mondiale, così come lo è stata delle passerelle.

Per due ragioni. La prima è che Milano è la sola, tra le aspiranti capitali del lusso del mondo, che può vantare alle proprie spalle un sistema di filiera capace di garantire, oltre alla qualità, anche parametri quali tracciabilità, coinvolgimento delle comunità, valorizzazione del genius loci, distribuzione della ricchezza, coltivazione dei talenti e del senso di appartenenza, tutela delle tradizioni e tecnologia. Insomma, un sistema integrato di stakeholder e territorio, le cui radici affondano nei secoli.

La seconda ragione si chiama Expo 2015. Evento che accenderà i riflettori sulla città, per una esposizione universale che ha fatto della sostenibilità il suo mantra (implicito nel titolo: “Nutrire il pianeta. Energia per la vita”). L’occasione è quella di ampliare questo concetto oltre i problemi nutrizionali, di sfruttare l’Expo per rendere Milano la capitale mondiale della sostenibilità in senso ampio come cultura condivisa, stile di vita, strategia di crescita. In questo, la sinergia della moda, in termini di immagine e di cultura, è evidente.

Da oggi al 2015 mancano ancora sei settimane della moda. Per centrare l’ultimo appuntamento di rilancio che il destino ha concesso alla città (e al Paese), quella Milano che creò le fashion victim, oggi deve inventarsi un modello nuovo: le ethics victim.

 

A cura di ETicaNews