15 novembre 2012 – Tre consigli pratici per le aziende: 1) quando si tratta di mercati azionari, le preoccupazioni sui temi di Csr sono più importanti dei punti di forza di Csr dell’azienda; 2) la performance sociale di un’azienda (Csp) può ridurre consistentemente il costo del debito anche del 40% e far ottenere giudizi migliori dalle agenzie di rating; 3) o si è socialmente responsabili o non lo si è, la soluzione di mezzo non paga.

Sono le tre interessanti lezioni che si possono trarre dal lavoro di Ioannis Oikonomou che nella sua tesi di dottorato del novembre 2011 all’University of Reading si avventura in territori che sono stati esplorati raramente, se non mai dagli studi sulla Csr: il ruolo “value-protective” della performance sociale di un’azienda (Csp) piuttosto che quello “value-enhancing” oggetto della maggior parte degli studi degli ultimi 40 anni, gli effetti della Csp anche sul debito societario e non solo sui mercati azionari; i complessi impatti finanziari delle interazioni tra azioni negative e positive di responsabilità sociale. La tesi, che si intitola “Empirical Investigations of the Relationship between Corporate Social and Financial Performance”, ha vinto il premio 2012 dell’agenzia Onu Pri (Principle for responsible investment).

MEGLIO RIDURRE LE PREOCCUPAZIONI CHE AUMENTARE I PUNTI DI FORZA

Almeno quando si parla di mercati azionari, le preoccupazioni sui temi della Csr relativi a un’azienda sono più importanti dei suoi punti di forza sempre in tema di Csr. Un esempio: una rapida riduzione delle preoccupazioni dei dipendenti di una certa azienda in un determinato anno diminuisce l’impatto degli shock di mercato sul prezzo dell’azienda. “I principali risultati delle analisi – si legge nella tesi – suggeriscono che la maggior parte delle singole componenti dei punti di forza sociali dell’azienda (che riguardano la comunità, la diversità, i dipendenti o la sicurezza di prodotto) sono negativamente, ma trascurabilmente legati al rischio azionario sistematico, mentre dall’altro lato, la maggior parte degli indicatori di preoccupazioni sociali sono positivamente e, significativamente in termini statistici, collegati sia al rischio totale sia a quello sistematico dell’azienda”.

Certo, la volatilità dei mercati fa da mediatore tra Csp e il rischio finanziario. E qui Oikonomou scopre che i mercati sembrano focalizzarsi nel premiare le aziende che “fanno bene” in periodi di bassa volatilità e penalizzare le società “trasgressive” in periodi di alta volatilità. Il che significa che in tempi di stress finanziario sono le preoccupazioni relative alle tematiche di Csp ad avere un impatto maggiore sulla volatilità del prezzo del titolo, mentre in periodi di bassa volatilità a diventare maggiormente pronunciato è l’effetto di diminuzione del rischio di azioni con positivi risultati sociali.

C’è però una curiosa considerazione da fare per quanto riguarda le aziende di piccole dimensioni. L’analisi, infatti, dimostra che in questo caso i risultati sono quasi del tutto invertiti: gli elementi di forza sociali dell’azienda sono maggiormente e più significativamente collegati al rischio finanziario delle preoccupazioni sociali. “La spiegazione più ragionevole – rileva Oikonomou – è che il mercato realizza le limitazioni che affrontano le piccole aziende nel loro comportamento a causa della limitatezza delle loro risorse e allo stesso tempo l’impatto minimo che ogni singola azienda ha sulle dimensioni di Csp come l’ambiente naturale”.

LA CSP ABBASSA IL COSTO DEI CORPORATE BOND

Ma non è solo equity. Una delle novità della tesi è anche il fatto di essersi concentrata sullo studio delle emissioni obbligazionarie: lo studio prova a quantificare l’effetto della Csp sugli spread delle emissioni societarie e sui giudizi del merito di credito (i rating), un lavoro che pochi studi hanno tentato nel passato. Si sono analizzati 3mila bond emessi da 742 aziende operanti in 17 differenti settori industriali. “I risultati empirici – spiega Oikonomou nella tesi – mostrano che supportare le comunità in cui l’azienda opera, prestare particolare attenzione alla sicurezza e alla qualità di prodotti e servizi offerti, evitare controversie nelle relazioni con i dipendenti può ridurre il costo del debito in maniera economicamente e statisticamente significativa”. Per esempio, l’analisi ci dice che un’azienda che modifica le proprie pratiche in relazione al proprio atteggiamento verso le comunità locali può ridurre lo spread dei propri bond anche del 40% rispetto ai livelli precedenti, il che si può tradurre in pochi punti base per i bond di alta qualità investment grade, o fino a 4 punti percentuali per i rating CCC o più bassi. Non solo, una migliorata Csp aumenta la probabilità che il bond sia percepito di alta qualità anche dalle agenzie di rating. “Nel complesso – conclude l’autore – i punti di forza sociali di un’impresa portano a più bassi spread e a più alti rating sulle emissioni obbligazionarie mentre le preoccupazioni hanno un impatto esattamente opposto”. E i bond con le maturità più lunghe sono quelli che hanno il legame più forte tra Csp e gli spread.

Un legame che, rileva la tesi, si è rafforzato con il passare degli anni grazie all’aumento della consapevolezza del pubblico e al ruolo dei media. Al contrario di quanto avviene sui mercati azionari, le condizioni di volatilità non sembrano svolgere un ruolo mediatore. “Sembra che – commenta Oikonomou – le caratteristiche di protezione del valore della Csp non siano solo limitate al mercato azionario”.

LE RICETTE A METÀ NON PAGANO

L’autore, infine, ha analizzato l’impatto finanziario delle interazioni che esistono all’interno della stessa Csp. In particolare fino a che punto azioni positive di Csr possano influenzare la natura e l’ampiezza degli effetti finanziari di azioni di irresponsabilità sociale e viceversa. Una tematica che fino a oggi non ha ricevuto grande attenzione negli studi. I risultati sono misti. Ma si può affermare che in ogni dimensione di Csr (con l’eccezione dell’ambientale) le società che “stanno nel mezzo” sono quelle che fanno peggio rispetto sia a quelle che si impegnano fino in fondo nella Csr sia a quelle che invece adottano azioni di “irresposabilità”. “Se analizziamo gruppi di aziende emerge una relazione a U – spiega l’autore – con le aziende che si impegnano solo in comportamenti socialmente responsabili o solo in comportamenti non responsabili che fanno meglio di quelle che fanno entrambe le cose, soprattutto nel caso della dimensione della diversità e delle relazioni con i dipendenti”. Insomma paga la coerenza: gli stakeholder non solo guardano alla performance sociale dell’azienda, ma anche alle motivazioni che ne stanno alla base, e sono pronti a penalizzare le società che sembrano usare le azioni di responsabilità sociale come strumenti con cui ingraziarsi il pubblico (e segnali misti di Csp possono essere considerati un indicatore di questo atteggiamento). “Un’azienda sta finanziariamente meglio quando segue un atteggiamento di Csp coerente (o buono o cattivo che sia, anche se quello buono sembra dare più soddisfazioni) e non fornisce indicazioni miste in uno stesso ambito di Csp ”, rileva ancora l’autore. E aggiunge: “Le aziende che vogliono raccogliere i benefici finanziari che derivano da una migliore Csp devono allo stesso tempo tentare di minimizzare le loro controversie sociali e massimizzare i contributi sociali/ambientali”. Allo stesso tempo gli investitori che incorporano la Csp tra i fattori per le loro decisioni di allocazione delle risorse farebbero meglio a investire in gruppi di società che sono o socialmente responsabili o socialmente irresponsabili piuttosto che in un portfolio di aziende che produce risultati misti. Una delle conclusioni critiche che ne discende è che le azioni sociali positive e negative dovrebbero essere trattate come concettualmente ed empiricamente distinte, e non dovrebbero essere amalgamate in misure monolitiche di Csp.

Elena Bonanni

 

A cura di ETicaNews