21 febbraio 2013 – Anche la buona governance nella teoria può rivelarsi non così buona nella pratica. Almeno è quanto ha dimostrato in un caso concreto uno studio di Andrea Beltratti (Dipartimento di Finanza università Bocconi) e René Stultz (Ohio State University) da cui è stato tratto un articolo, “The Credit Crisis around the Globe: Why Did Some Banks Perform Better?“, pubblicato sul Journal of Finance Economics.

I due studiosi hanno esaminato le ragioni per cui alcune banche hanno avuto performance migliori di altre durante la crisi, mettendo alla prova tra l’altro la tesi secondo cui la cattiva governance ha reso ancora più grave la crisi. Il risultato? Un consiglio di amministrazione vicino agli interessi degli azionisti (shareholder friendly), che è stata l’unica dimensione con un effetto significativo sulla performance delle banche durante la crisi, si è rivelato uno svantaggio per le grandi banche internazionali nel corso della crisi finanziaria dalla seconda metà del 2007 alla fine del 2008.

Mentre la visione prevalente vuole che le banche con board vicini agli interessi degli azionisti siano meno rischiose delle altre, lo studio dimostra che ciò non era vero neppure prima della crisi e che la performance durante la crisi è stata significativamente peggiore di quella performance delle altre banche.

Queste evidenze, concludono gli autori, sono coerenti con la visione secondo cui le banche che sono cresciute di più in settori che hanno finito per avere cattivi risultati durante la crisi stavano implementando, prima della crisi, politiche gradite agli azionisti. I soci, in altre parole, erano soddisfatti degli alti ritorni di attività diversificate e rischiose, fino a quando queste hanno causato perdite inaspettatamente rilevanti durante la crisi. La conclusione sorprendente e scomoda ha dunque una spiegazione: l’avidità degli azionisti.

Fausta Chiesa

 

A cura di ETicaNews