20 dicembre 2012 – I costi che la società sta facendo pagare al mondo (ambiente, biodiversità, ecosistema) cominciano a essere percepiti. Ma non contabilizzati. Uguale: c’è un conto salatissimo, in circolazione, che molto presto arriverà sul tavolo delle imprese ritenute responsabili, del quale queste ultime in larga parte ancora non dimostrano di essere consapevoli.

È il risultato di un approfondito osservatorio realizzato dall’Acca (Association of Chartered Certified Accountants), in collaborazione con Kpmg e Fauna & Flora International (fondata nel 1903, è una delle più antiche charity rivolte alla sostenibilità ambientale), nel quale viene proposta un’analisi dei costi ambientali, del loro potenziale impatto sulle economie e sui bilanci (la loro “materialità”) e del grado di reazione che comincia a percepirsi a livello istituzionale e di grandi investitori. Soprattutto, attraverso un questionario interno all’Acca, emerge che i responsabili controllo e gestione di oggi soltanto in minima parte (circa un quarto) considerano questi aspetti in modo concreto nei prospetti dei profitti e delle perdite aziendali.

I COSTI NON PAGATI
L’analisi porta una serie di esempi delle esternalità negative (ossia dei costi impliciti per la collettività) legati al modello attuale di sviluppo. Su tutti, è citato il costo di conservazione delle foreste per arginare l’effetto serra, che nel lungo termine è calcolato in 3.700 miliardi di dollari (3 Mainstreaming the Economics of Nature: A synthesis of the approach, conclusions and recommendations of TEEB, TEEB, 2010 ). Oppure, il costo aggregato delle perdite di “benefici ambientali” in questo mezzo secolo, pari al 7% del Pil mondiale nel 2050 (The Economics of Ecosystems and Biodiversity: An interim report, TEEB, 2008). Ma ci sono anche casi più diretti: per esempio, il costo della moria delle api nel Regno Unito, in termini di mancata impollinazione, potrebbe arrivare a costare 1,8 miliardi di sterline l’anno (Tom D. Breeze, Stuart P.M. Roberts, Simon Potts, Simon G. Potts, The Decline of England’s Bees: Policy Review and Recommendations, University of Reading, 2012).

Oppure ancora, sono ricordati i casi più recenti in cui la questione ambientale ha messo a dura prova i conti aziendali: oltre al caso di Bp nel Golfo del Messico, sono ricordati quelli del 2012 della miniera Infinito Gold in Canada o della Newmont Mining Corporation in Perù, per le quali sopraggiunte complicazioni ambientali hanno compromesso progetti che parevano acquisiti.

Non solo. Sono citati anche potenziali effetti indiretti, ossia le reazioni dei consumatori al peggiorare della situazione. Per esempio, il report cita il sondaggio della Union for Ethical Biotrade su 8mila persone in otto Paesi (Brasile, Francia, Germania, India, Perù, Svizzera, Uk e Usa), da cui emerge che l’85% dei clienti cerca ingredienti naturali nei prodotti di cosmetica e che il 69% esprime timori circa la sostenibilità della fonte di approvvigionamento delle materie prime (Biodiversity Barometer 2012, Union for Ethical BioTrade, 2012)

GLI INVESTITORI PREMONO
A fronte di queste “ombre” ambientali, e in conseguenza di un progressivo deterioramento della situazione, l’analisi di Acca-Kpmg riporta alcuni segnali di reazione da parte del mondo degli investitori.

Per esempio: l’appello per la Water Disclosure del Carbon disclosure Project è stato appoggiato da 354 investitori con 43mila miliardi di dollari di asset in gestione (CDP Water Disclosure Global Report 2011: Raising corporate awareness of global water issues, Carbon Disclosure Project, 2011 ); otto investitori, per 787 miliardi di dollari di gestito, hanno realizzato un’analisi su rischi e opportunità della biodiversità e dei benefici dell’ecosistema nel segmento dell’estrazione (A. Grigg, M. Harper and S. Verbunt, Tread Lightly. Biodiversity and Ecosystem Services Risk and Opportunity Management within the Extractive Industry, The Natural Value Initiative, 2011); una coalizione di 30 organizzazioni, anche qui rappresentanti 170 miliardi di dollari di investimenti, si è appellata alla Us Environmental Protection Agency (EPA) per avviare la revisione di una miniera in Alaska che pregiudica l’habitat, nella Bristol Bay, del salmone rosso (‘Largest Open Pit Mine in North America Cause for Investor Concerns – Investors Representing $170 Billion Urge EPA to Safeguard Alaska’s Bristol Bay’, Trillium Asset Management, 12 April 2011 ).

Mentre 40 entità finanziarie private, incluse Rabobank e la National Australia Bank, hanno sostenuto la Natural Capital Declaration, impegnandosi a considerare gli impatti della propria attività sul “capitale naturale”, a valutarne rischi e opportunità nonché a “costruire un consenso globale per l’integrazione del “capitale naturale” nella contabilità delle imprese e delle istituzioni” (‘The Declaration’, Natural Capital Declaration ).

L’ERRORE CONTABILE
A fronte di tutto questo, il sondaggio di Acca mette sì in luce l’esistenza di una larga consapevolezza tra gli apparati di rendicontazione delle aziende. Tuttavia, anche una discreta incapacità, o non volontà, di affrontare il problema concretamente. L’inchiesta, spiega Acca, ha riguardato alti funzionari delle aziende (Cfo o Ceo o comunque senior manager).

Ebbene, il 60% degli intervistati ritiene che il “natural capital” sia un fattore importante per il proprio business. Oltre la metà è anche arrivato a includere problematiche di “natural capital” nelle valutazioni di rischio della società. Si scende al 49%, invece, per coloro che lo ritengono un elemento sostanziale di rischio in termini operativi, regolatori, reputazionali e finanziari. E si scende al 25% per chi ha sempre (o spesso) incluso questo fattore nelle proprie analisi. Un terzo di coloro che ha risposto non ha mai incluso la tematica “natural capital” nei prospetti di rischio. E, aggravante, un terzo di questi ultimi lavora in società ad alto rischio ambientale.

Il sondaggio, rileva Acca, ha inoltre ottenuto un basso seguito: ha risposto circa l’1% dei network (218 membri) contro una media del 3% di iniziative simili. Per contro, ha ottenuto una percentuale assai alta (il 18% contro il 13% medio) del più elevato livello aziendale. In sintesi: chi comincia a comprenderlo ne fa una questione da “piani alti”. Il problema è che ancora in pochi se ne sono accorti.

 

A cura di ETicaNews