8 marzo 2013 – “Quanti schiavi lavorano per te?”. È questa la domanda che campeggia sulla home page del sito SlaveryFootprint. Come scoprirlo? Basta completare il questionario. Un viaggio interattivo nel proprio stile di vita, creato dall’associazione no profit “Call+Response”, per far comprendere ai consumatori che la schiavitù è ben lontana dall’essere stata abolita.

In quindici minuti circa di domande si può quindi scoprire quanti schiavi servono per rendere la propria vita piena di agi. Si parte dal definire il tipo di casa in cui si abita, la dieta che si conduce e i prodotti che si comprano. Ma le domande prendo in considerazione anche quanti e quali vestiti si possiedono oltre che i gioielli e l’attrezzatura hi-tech che si sono accumulate nel tempo.

Ad ogni sezione, in totale undici, non mancano inoltre consigli e maggiori informazioni sulla necessità di un consumo consapevole. Si ricorda, ad esempio, che i diamanti non sono l’unica pietra preziosa che crea spargimenti di sangue e che, in India, i produttori di gamberetti obbligano i lavoratori a turni di quasi 20 ore. Ma il sito parla anche delle decine di migliaia di bambini che, sempre in India, lavorano in miniera per estrarre quei minerali che poi verranno usati nei prodotti di bellezza o di quei 1.4 milioni di bambini obbligati, in questi anni, a lavorare nei campi di cotone in Uzbekistan. Per ricordare, alla fine di tutto, che ogni volta che si paga per fare sesso si contribuisce ad alimentare la schiavitù di migliaia di donne.

Le aree più colpite dalla schiavitù? In primis la Cina, dove i lavoratori sono sfruttati principalmente nelle fabbriche minerarie, poi l’India, dove la schiavitù è usata soprattutto per trattare le materie prime. Ma ci sono anche luoghi inaspettati in cui il lavoro forzato è presente. In Australia, ad esempio, dove la criminalità organizzata gestisce traffici di persone in tutta l’area asiatica e pacifica; ma anche negli Stati Uniti dove, ogni anno, sono trafficate tra le 14’500 e le 17’500 persone, principalmente donne e bambine, destinate al mercato della prostituzione.

Slavery Footprint è perciò un modo virtuale e interattivo per educare il consumatore rispetto alle “impronte di schiavitù” che, più o meno consapevolmente, si lascia dietro di sé dopo ogni acquisto. L’algoritmo su cui si basa il calcolo, nonostante non possa prendere in considerazione tutti i brand che realmente esistono, risulta dettagliato in quanto si basa sulle informazioni fornite dal dipartimento del lavoro e dal dipartimento di Stato statunitensi, oltre che da Transparency International.

Il test permette quindi di affrontare un problema che sta diventando sempre più importante: la trasparenza e la sostenibilità della filiera produttiva. I promotori del sito sottolineano infatti che non basta affidarsi ai brand più conosciuti per essere certi che i loro fornitori non utilizzino forme di schiavitù. Lo scopo perciò è quello di educare il cliente in modo che sia quest’ultimo a richiedere alle compagnie stesse maggiori informazioni e una maggiore attenzione nel monitorare i fornitori. Per questo motivo i curatori del sito hanno creato anche un applicazione per smartphones che permette di domandare direttamente alle compagnie di produrre beni senza utilizzare alcuna forma di schiavitù.

“Un libero mercato dovrebbe basarsi su persone libere” sottolineano gli ideatori del questionario. E proprio a questa affermazione si lega l’etichetta che contraddistingue il sito e che, secondo i promotori dell’iniziativa, dovrebbe essere cucita su ogni capo ed applicata ad ogni oggetto: “made in a free Word”.

Elisabetta Baronio

 

A cura di ETicaNews