5 febbraio 2013 – L’unione fa la forza, soprattutto se in gioco ci sono questioni troppo grandi per essere risolte individualmente. Sulla collaborazione si fonda, appunto, il Collective Impact, un nuovo modello di progresso sociale proposto negli Stati Uniti per affrontare (e risolvere) tematiche di grandissima complessità: dalla fame nel mondo alla riforma della sanità statunitense.

Il “collective impact” è una strategia teorizzata da John Kania e Mark Kramer nel 2011 che si basa su una filosofia di fondo molto semplice: una volta identificato un problema sociale spinoso i diversi stakeholders lavorano insieme per trovare una risoluzione. «Cambiamenti sociali di grande portata richiedono – infatti – una coordinazione che va oltre la divisione settoriale. Nonostante ciò il settore sociale rimane ancora focalizzato su interventi isolati portati avanti da singole organizzazioni» sottolineano però i due ideatori del concetto.

Cosa cambia perciò rispetto alle strategie precedenti? La differenza risiede nel modo in cui si collabora: non più partnership saltuarie tra organizzazioni autonome bensì un approccio coordinato, strutturato e collaborativo tra entità interconnesse. L’obiettivo del collective impact è perciò quello di costituire un nuovo modello di progresso sociale al cui centro porre una collaborazione duratura, continuativa ed efficace.

Ma quali sono i vantaggi di questo nuovo modo di approcciare i problemi? Il punto di forza del collective impact, specificano Kramer e Kania in: “Abbracciare l’emergenza: come il collective impact affronta la complessità” risiede in tre fattori: un più alto livello di vigilanza che deriva da uno sforzo congiunto, una capacità di apprendimento maggiore grazie agli innumerevoli feedback che giungono dalle diverse entità coinvolte e la possibilità di poter agire velocemente in risposta alle necessità contingenti.

Si prendano ad esempio gli Stati Uniti: ogni anno un milione di studenti abbandona la scuola secondaria prima del termine, indebolendo, di conseguenza, l’economia del paese. Fino ad ora molti hanno cercato di risolvere il problema, ma pochi hanno avuto successo. Tra questi ultimi c’è Strive, un’organizzazione no profit di Cincinnati, che da alcuni anni porta avanti iniziative per ridurre il tasso di abbandoni in collaborazione con altri enti. «Perché Strive ha riportato progresso proprio dove così tanti altri avevano fallito? È stato possibile perché un gruppo di leader locali hanno deciso di abbandonare la loro agenda individuale in favore di un approccio collettivo per migliorare i risultati scolastici degli studenti» commentano i due autori. Kania e Kramer definiscono infatti cinque pilastri che permettono la realizzazione di un impatto collettivo: un’agenda comune, misure condivise, attività di mutuo rinforzo, una comunicazione che sia continua, una struttura di supporto che aiuti lo sviluppo del progetto.

A questi pilastri si aggiungono tre precondizioni spiegate nell’articolo: “Canalizzare il cambiamento: mettere in atto il collective impact”: prima di tutto il tema deve essere influente, le risorse finanziarie adeguate e, infine, la società stessa deve avvertire la necessità di un cambiamento. «Se si trovano insieme queste precondizioni creano sia l’opportunità sia la motivazione necessaria per far si che persone, che non avevano mai collaborato, comincino a lavorare insieme» affermano gli autori.

Elisabetta Baronio

 

A cura di ETicaNews