21 novembre 2012 – Le illusioni di abitare la parte del mondo più sostenibile crollano sotto i colpi del Drago. La Cina, infatti, per effetto degli impulsi dei piani quinquennali della Repubblica socialista, sembra aver tutte le intenzioni di azzerare al più presto il gap di corporate social responsibility tra le proprie aziende e quelle occidentali. Anzi, a conferma delle impressioni ricevute da chi viaggia spesso oltre la Grande muraglia, il passo di marcia degli epigoni di Mao sembra tale che, in termini di Csr, le corporation cinesi rischiano di aver già lasciato indietro parecchie aree europee (Italia inclusa).

Il siluro è arrivato con la relazione presentata ieri nel corso di un incontro a porte chiuse del Csr Manager Network, dalla delegazione della China Federation of Industrial Economics. La quale ha presentato alcune statistiche, ma, soprattutto, ha elencato la portata politica delle scelte in tema di Csr da parte di Pechino e di tutto l’apparato della Repubblica socialista. L’intero ex impero di mezzo sembra muoversi all’unisono verso la direzione indicata nientemeno che nel dodicesimo piano quinquennale cinese.

La China Federation of Industrial Economics (Cfie) è un’organizzazione approvata e registrata dal Governo. Nata nel 1988, il suo compito è esattamente quello di promuovere la modernizzazione dell’industria nazionale. Ebbene, dal punto di vista statistico, la delegazione cinese ha fornito indicazioni sulla riduzione del consumo energetico e idrico a livello industriale. Quindi ha fornito alcuni dati sui bilanci di sostenibilità. Nel 2011, sono state 898 le imprese cinesi hanno redatto un Csr report, in aumento del 18% sull’anno precedente. Nel 2012, la Cfie si attende che il numero arrivi a 1.200, quindi con un progresso di circa il 30 per cento. In termini di finanza, la China Federation spiega che nel 2010 e 2011 sono stati costituiti tre nuovi fondi di investimento responsabili e che, secondo la China Securities Association, 23 su 59 società di gestione avrebbero in programma investimenti social responsible nei prossimi tre anni.

Ma, se le statistiche colpiscono per la dimensione dei numeri, forse anche più rilevante è il contenuto qualitativo della relazione. La quale esordisce citando il dodicesimo piano quinquennale del partito (e ri-citandolo diverse volte nel documento), del quale vengono enfatizzate le caratteristiche sostenibili in termini di consumi e di integrazione tra economia e territorio. Quanto sia incisiva la “direzione” dei timonieri di Pechino è evidente scorrendo, a pagina 5 del documento, la lista delle authority che hanno avviato progetti legati alla Csr. Lo stesso dicasi (a pagina 8) delle iniziative delle associazioni di settore finalizzate alla preparazione di manuali e vademecum per le rispettive aziende.

Un aspetto significativo è l’impostazione sinocentrica della Csr. «La corporate social responsibility – si legge nel documento – è un nuovo concetto ideologico, un nuovo modello di gestione e un nuovo percorso di sviluppo, il cui contenuto è altamente consistente con la trasformazione della crescita economica. Noi possiamo dire che la Csr è uno dei fattori chiave di questa trasformazione». Fin qui, un esame di quanto questo “nuovo concetto” sia confacente alla causa cinese. Ma attenzione. Questo “nuovo concetto” è vincente solo se viene declinato con le caratteristiche cinesi. Insomma, una Csr made in China. «Per lungo tempo – si legge – con l’obiettivo di integrarsi con l’economia globale, la Cina ha studiato e introdotto avanzati concetti di Csr stranieri, e così la Csr cinese si è sviluppata rapidamente». Ma Pechino non ha solo “copiato”. Bensì «ha reso la Csr qualcosa di su-misura per il Paese. La combinazione di una Csr emergente, di uno sviluppo guidato scientificamente, di una armoniosa società socialista e di una nuova strada dell’industrializzazione si sono tradotti nel concetto di Csr con caratteristiche cinesi».

Sta forse proprio in questa autoreferenzialità l’aspetto più confortante dell’intervento di ieri. L’implementazione della Csr e le conseguenti statistiche vanno prese con le dovute cautele. Si parla di concetti non sempre sovrapponibili agli standard europei e americani. E di sistemi di rilevazione su cui la presenza statale ha una forte influenza. Per giunta, la presenza a Milano conferma che la Cina, in ogni caso, sta ancora cercando un contatto con gli esperti della corporate responsibility occidentale, cui palesemente chiede un confronto. E forse anche una mano nella sua implementazione.

Questi ultimi fattori, comunque, non devono tranquillizzare. La Cina ha già dimostrato che, quando si muove, affidabilità o meno delle proprie statistiche, ha effetti devastanti. La porta aperta ieri a Milano dalla delegazione cinese può essere una splendida ultima occasione per far sì che la Csr del Drago contenga una parte di Dna occidentale. E, di conseguenza, per far si che proprio questa Csr occidentale diventi un imperativo categorico anche da questa parte del mondo.

 

A cura di ETicaNews