18 giugno 2013 – Da quattro anni, il Dipartimento della Difesa statunitense pubblica il rapporto di sostenibilità dello Us Army. Un documento formalmente impeccabile, redatto secondo gli standard del Gri, e che raggiunge il livello ragguardevole di “B”, perché fornisce informazioni su almeno 20 degli indicatori richiesti dal Gri. «In particolare – si legge nel report – degli 87 indicatori previsti dal Gri, l’esercito ne rendiconta per intero 37 e parzialmente altri 25, un miglioramento rispetto al report 2010 dove erano rendicontati interamente 33 indicatori e parzialmente altri 21».

Anche lo Us Army non vuole essere da meno nello sforzo collettivo di tutelare risorse pubbliche, non sprecare energia, terra e acqua potabile, ricorrere a fonti rinnovabili, tutelare le specie in via di sparizione, ridurre i componenti tossici e quant’altro si possa fare per contribuire alla sostenibilità del Pianeta. «Army green is Army strong» è il finale dell’introduzione firmata dal sottosegretario all’Esercito Joseph Westphal.

Di sicuro, la trasparenza non manca. Per cominciare, al centro della seconda pagina è ben in evidenza il costo del report: 229mila dollari. Poi sono dettagliati i vari programmi per aumentare l’efficienza energetica ed esemplificati gli sforzi per ridurre al minimo i materiali rischiosi anche da parte dei fornitori, ridurre l’utilizzo di acqua e di carburante durante le esercitazioni anche al fine di tutelare il territorio, tutelare al massimo la sua risorsa più preziosa, cioè il capitale umano, e preoccuparsi che servizi e infrastrutture siano gestiti all’insegna della sostenibilità e delle energie rinnovabili.

Un documento che, però, può sembrare un paradosso: l’attività di un esercito produce ben altri effetti negativi che non quelli di consumare acqua, inquinare producendo Co2 o fare uso di materiali nocivi.

«Mi rendo conto che il documento possa apparire bizzarro – ammette Davide Dal Maso segretario generale del Forum per la Finanza Sostenibile e membro consiglio direttivo Csr Manager Network -. Il ruolo di un esercito è una questione controversa e l’operazione può sembrare opportunistica o addirittura cinica. Ma bisogna pur dire, in generale, che quanto maggiore è il numero di organizzazioni che sentano di dar conto delle proprie performance ambientali sociali, meglio è. Soprattutto se la rendicontazione è allineata a standard che limitano o circoscrivono la possibilità di raccontare ciò che si vuole. Il report è conforme a linee Gri, con livello B, un livello medio-alto. Può disturbare il senso etico e in parte condivido il disagio a livello personale, ma ci sono molte imprese che operano in settori controversi e che comunque si posizionino sul terreno della responsabilità sociale: per esempio l’industria degli armamenti e della difesa. Alcuni criticano anche il settore farmaceutico. Ma è una valutazione di ordine morale che non può che essere lasciata a livello individuale. Anche l’oil & gas è per forza di cose non sostenibile, come l’auto. Ma queste organizzazioni fanno un’attività legale e non possiamo che prenderne atto e sperare che nella loro attività si comportino in modo quanto più responsabile possibile. Da un punto di vista tecnico è un fatto che va registrato con favore».

«Il fatto è peculiare, ma è un bell’atto di public disclosure il fatto che un esercito ritenga di avere obblighi in sostenibilità – sostiene Aldo Bonati, capo del dipartimento di ricerca di Ecpi, istituto che svolge attività di ricerca, di assegnazione di rating e costruzione di indici di sostenibilità -. Che pubblicamente l’esercito americano dica di avere responsabilità in termini di sostenibilità è un fatto positivo: meglio pubblicare il report che non pubblicare niente come fanno negli altri Paesi».

Per quanto riguardo il principio, dunque, gli esperti sono d’accordo sul fatto che chiunque senta il dovere di pubblicare un report di sostenibilità è da apprezzare. Ma per quanto riguarda i contenuti? «Le informazioni presenti sono numerose, coprono uno spettro ampio. Dal punto di vista della qualità del prodotto ci siamo», dice Dal Maso.

Tuttavia, nella parte sui social indicators si trovano numerosi omissis (“Not reported”), che però in diversi casi (e di questo va dato atto) rinviano ad altre fonti governative e comunque denotano uno sforzo di chiarezza. «L’esercito – si legge nel report – non dà il resoconto su molti degli indicatori del Gri in tema di lavoro, diritti umani, società». Come era da attendersi, è più completa la parte sull’ambiente rispetto a quella sociale.

«Alcuni aspetti chiave non sono trattati in modo abbastanza esplicito – dice Bonati -. E’ estensiva la parte relativa all’ambiente, ma le parti più rilevanti per lo Us army sono i diritti umani (penso al trattamento dei prigionieri nei campi di prigionia) e le armi meno convenzionali come le bombe a grappolo, le mine anti-uomo, armi nucleari e armi biologiche. Per i diritti umani ci sono, comunque, regole internazionali che mi sembra siano deviate e ci sono rimandi generici sui training fatti ai militari in tema di diritti umani. Laddove si parla di human capital trovo bello che si parli dei veterani, un tema sempre più importante, ma nell’ultima guerra durata dieci anni molti militari erano giovani e provenienti da classi meno abbienti: è importante gestire un loro rientro nella vita comunitaria. Di loro si parla poco. Anche nel caso delle morti accidentali si citano gli incidenti in motocicletta o guidando la propria auto, ma non si parla dei suicidi, che non sono classificati. E il suicidio è un indicatore dell’efficienza maggiore o minore del sistema per gestire un sano rientro a casa».

Fausta Chiesa

 

A cura di ETicaNews