22 ottobre 2012 – «Le Borse, ormai, sono un luogo poco propizio per i risparmiatori». L’ammissione non è di un soggetto qualsiasi. A fare outing è stato Carlo Fratta Pasini, nella sua veste di presidente del Banco Popolare, una delle principali banche nazionali, nel corso di un convegno tenutosi venerdì scorso, nel corso del quale ci si è interrogati sul ruolo dei “buoni” mercati finanziari per l’economia. Evidentemente, visto che Fratta Pasini ha tirato le conclusioni dell’incontro, le Borse oggi non sono né buone, né, soprattutto, efficaci.

In un altro incontro di pari livello intellettuale, qualche giorno prima in Università Cattolica, il professore Claudio Devecchi aveva illustrato un volume realizzato da Innovation Lab, Cerif (Centro di ricerca sulle imprese di famiglia) e Asam (Associazione sugli studi aziendali e manageriali), e intitolato “Self Caring e filantropia”. Ossia, auto-cura-di-sé e finalità filantropiche. Cosa c’entrano? Da un rapido esame della situazione anagrafica nazionale, emergono cifre che non richiedono troppe parole: la popolazione italiana oltre i 65 anni è pari al 20,1% del totale; il 53% delle famiglie italiane è composto da uno o due componenti, per effetto della crescita delle persone sole e delle coppie senza figli. Cosa faranno queste persone del loro patrimonio? Il libro è il risultato di due anni di studio attorno a un’equazione che permetta una decorosa vecchiaia a chi non ha appoggio per la parte finale della propria vita, e nel contempo garantisca la destinazione del proprio patrimonio a fini sociali (filantropici).

Questi due esempi rappresentano due epi-fenomeni di qualcosa che da tempo striscia dietro le quinte, senza trovar modo di imboccare una via di uscita allo scoperto salvo iniziative sporadiche, autonome, frazionate e disperse. Dietro le quinte striscia la consapevolezza che in Italia esista un notevole ammontare di risorse private accumulate che sarebbero pronte per investimenti, anche e forse soprattutto filantropici. La Borsa da tempo non offre spunti, né la finanza pare essere la più meritevole delle destinazioni possibili. Per contro, sono diversi i gestori di patrimoni aziendali o personali che si trovano di fronte a richieste di consulenza in investimenti sostenibili.

Un concreto esempio statistico è arrivato questa settimana dalla Gran Bretagna. Alla National Ethical Investment Week sono state presentate ricerche che indicano come il 55% dei sudditi di sua Maestà richieda alle proprie banche consulenza sull’impact investment. Perché addirittura il 46% di loro è pronto ad allocare una parte del patrimonio o della pensione in investimenti con un ritorno sociale.

È assai possibile che anche in Italia queste percentuali possano esistere, magari oggi concentrate nelle aree e nei segmenti più ricchi e consapevoli del Paese. O, quanto meno, sono percentuali che possono essere raggiunte. Cosa manca, dunque?

Probabilmente, manca qualcosa che è a un tempo simile a ciò che manca in Gran Bretagna, ma nello stesso tempo con specifiche tutte italiane.

Il punto in comune è la mancanza di fiducia. L’importanza di questa fiducia l’ha spiegata senza giri di parole, nel corso dello stesso convegno in cui ha parlato Fratta Pasini, l’avvocato Dario Loiacono: «Ciò che sfugge – ha detto – è che la finanza abbia la necessità che venga riconosciuto il principio di buona fede. Sfugge che la Borsa sia un sistema per trasformare la fiducia di un rapporto personale in quella di un rapporto generalizzato, ossia una fiducia di sistema e standardizzata».

Il punto specifico italiano è una mancanza di fiducia tutta nazionale, che è più ampia, più profonda, ideologica e, molto probabilmente, anche opportunistica. Lo prova il fatto che, pur avendo uno degli apparati di volontariato e di terzo settore più vasti del continente, questo sia e rimanga di fatto sommerso. E che, soprattutto, a differenza di quanto avviene in Gran Bretagna, dove esistono organizzazioni non profit dalle grandi capacità di aggregazione finanziaria (le charities), in Italia la raccolta di risorse che non siano le ordinarie donazioni natalizie, sia ancora un tabu. Il paradosso, insomma, è che in Italia sia anche maggiore che altrove lo spread tra chi avrebbe la volontà di investire risorse a fini filantropici e la capacità di assorbimento delle realtà “sociali”.

È in questo paradosso che potrebbero esserci i margini per sviluppare un’attività win win. Gli operatori della finanza dovrebbero non solo farsi carico di creare fiducia in chi ha il desiderio di investire. Bensì, preoccuparsi di creare un sistema capace di coinvolgere e rendere consapevole anche chi potrebbe ricevere questi investimenti. Un’opera di fiducia su due fronti, per portare le risorse nascoste della società in quegli ambiti che potrebbero rappresentare il volano della crescita economica del territorio.

Per la finanza sarebbe una fonte di business, ma anche una creazione di business. E, se la parola business non piace, sarebbe soprattutto una moltiplicazione generale di valore sociale.

 

A cura di ETicaNews