11 luglio 2014 – L’immagine che inquadra e spiega meglio di qualsiasi altra cosa quello che sta per diventare il prossimo tema della Csr ambientale è l’isola di plastica che ondeggia nell’oceano Pacifico, enorme accumulo di spazzatura grande almeno quanto la Penisola Iberica che si è formato a partire dagli anni 50 e che, qualcuno racconta, pare sia cresciuto fino a diventare grande quasi come gli Stati Uniti. Al di là del mito creatosi attorno all’arcipelago dei polimeri, che cosa ci dice l’immagine di quell’isola? Che non esiste soltanto il carbon footprint, cioè l’impatto ambientale causato dall’utilizzo di fonti derivanti dal carbone, di cui molto si è parlato.

La sensibilità è già alta e sono molte le multinazionali del largo consumo come Unilever che sono particolarmente attente al packaging per ridurre il volume di quanto andrà a finire nei bidoni della raccolta (si spera differenziata). Ma le imprese potrebbero, però, diventare ancora più sostenibili migliorando il loro modo di misurare, gestire e comunicare la quantità di plastica utilizzata nelle loro attività produttive e nella loro catena di fornitura. E’ quanto ha appena denunciato una nuova ricerca del Plastic Disclosure Project, condotta dallo UN Environment Programme e da Trucost.

Il report Valuing plastic: the business case for measuring, managing and disclosing plastic use in the consumer goods industry, è stato pubblicato dall’assemblea del UN Environment Assembly a Nairobi, in Kenya. Si tratta della prima indagine in assoluto che analizza i costi ambientali della plastica nell’industria. Ha calcolato la quantità di plastica usata dalle società quotate in Borsa di 16 settori di beni di consumo, e la trasparenza delle aziende in merito. Lo scopo non è solo di puntare il dito o di accusare, bensì quello di aiutare le aziende a capire i rischi e le opportunità della plastica e a mostrare dei casi per migliorarne la gestione.

Il costo per la natura calcolato da Trucost derivante dall’industria dei beni di consumo è di oltre 75 miliardi di dollari l’anno. Il costo dipende da una serie di impatti ambientali che comprendono il danno provocato dai rifiuti alla fauna marina negli oceani e la perdita di risorse quando i rifiuti di plastica sono ammassati nelle discariche invece di essere riciclati.

L‘alimentare è il settore che in termini assoluti ha l’impatto maggiore ed è responsabile di almeno un quarto dei costi ambientali. Sono invece i giocattoli che presentano il conto più salato proporzionalmente al prodotto in quanto pesa per il 3,9% dei ricavi annuali del comparto.

L’impatto più significativo a valle della catena è l‘inquinamento dei mari, che ha un costo annuale calcolato in 13 miliardi di dollari, ma si tratta di un valore che non tiene conto dell’impatto di piccolissime particelle di plastica che devono ancora essere studiati dalla ricerca. Il maggior impatto a monte sono le emissioni di gas a effetto serra, scaturiti dalla produzione di plastica, che sono responsabili di almeno un terzo del totale dei costi ambientali.

L’impatto della plastica varia a seconda del posto in cui ci si trova. Le imprese hanno costi ambientali più elevati se acquistano o utilizzano la plastica in Asia rispetto a Nord America, Europa od Oceania, a causa del maggior inquinamento prodotto durante la produzione in Asia per la mancanza di adeguate infrastrutture per l’acqua.

Al momento, il livello di trasparenza è scarso: soltanto metà delle 100 società di beni prese in esame pubblica almeno un dato sull’uso della plastica. Il tasso di disclosure varia ampiamente, per esempio nessuna società nel settore dell’abbigliamento e prodotti sportivi fa reportistica e questo a fronte del 90% di società produttrici di beni durevoli per casalinghi.

Andrew Russell, direttore del Plastic Disclosure Project, ha dichiarato: «La ricerca mostra che le imprese dovrebbero prendere in considerazione l’impatto della plastica così come fanno per il carbone, l’acqua e il legno. Se lo facessero potrebbero ridurre i rischi, massimizzare le opportunità e quindi rendere il loro business più sostenibile ma anche più forte».

Fausta Chiesa

A cura di ETicaNews