2 aprile 2013 – «Gli enti nonprofit stanno cambiando il modo nel quale fare business perché devono farlo: i fondi governativi non torneranno ai livelli pre recessione, le risorse della filantropia sono limitate e la domanda per servizi critici è drammaticamente aumentata». È l’incipit della ricerca 2013 State of the Nonprofit Sector Survey pubblicata in questi giorni dal Nonprofit Finance Fund americano. Si tratta di un’analisi annuale sul segmento del terzo settore Usa, realizzata su 6mila risposte da 50 Stati del Paese. Ebbene, uno su quattro degli enti considerati non ha cassa oltre i 30 giorni.

Il problema del cambio – obbligato – di paradigma per le attività comunemente indicate come terzo settore, dunque, non è certo soltanto italiano. La consapevolezza della necessità di trasformare il modello di sostegno alle attività oggi gestite dal non profit non si lega più a differenti concezioni – ideologiche, morali, religiose – su come debba funzionare la società. Bensì, si lega alla incontestabile realtà storica che il modello erogativo, fino a oggi sostenuto in misura preponderante da spese pubbliche e Fondazioni bancarie, ha cessato di funzionare. O meglio, dopo aver funzionato in periodi in cui la ricchezza di carta, cioè una ricchezza facile, consentiva anche una facile generosità, per quanto talvolta inefficiente e non sempre accompagnata da adeguati controlli, oggi si trova costretto a confrontarsi con logiche assai più stringenti.

Il punto, dunque, è come sostituire questo modello erogativo. È interessante notare come negli ultimi mesi siano emersi diversi segnali della volontà di cambiamento. ETicaNews ne ha riportati diversi. Tra questi: la nascita di Uman Fundation e di Opes Fundation, le posizioni assunte da Fondazione Cariplo, la campagna avviata dal segretario generale di Assifero Bernardino Casadei, i tentativi di modifica della normativa sulle Imprese sociali (legge 155/2006) in direzione di aprire a una qualche forma di distribuzione degli utili. Si tratta di una serie di messaggi di come si stia cercando di trasformare un mondo agganciato a meccanismi di distribuzione di risorse a fondo perduto, in un mondo vincolato a meccanismi di remunerazione del capitale. È un passaggio da vertigini per larga parte dei protagonisti. È un passaggio culturale profondo. È di fatto lo sdoganamento del capitalismo in forma sociale.

Non c’è da stupirsi se questi messaggi sono stati spesso edulcorati, lasciati tra le righe. O se, come nel caso del cambiamento della legge 155 del 2006, sono addirittura naufragati.

Il mondo della finanza impact, ossia una finanza che generi “impatto” sociale, del resto, appare ancora piuttosto lontano anche dal punto di vista del know how degli operatori italiani. Un esempio arriva dall’osservare quanto pubblicato nei giorni scorsi da il Sole-24Ore e da l’Economist. Quest’ultimo, in un articolo titolato Commerce and coscience, è andato a raccontare quella che indica come «una nuova strada che guadagna attenzione per finanziare i servizi pubblici», ovvero i Social impact bond. Il giornale britannico ha fatto il punto su questo genere di obbligazioni che legano il tasso di interesse dell’investimento al raggiungimento di risultati sociali. Se con tali iniziative si ottengono determinati valori in termini, per esempio, di riduzione dei senza tetto, cura di indigenti, recupero ambienti disagiati, allora questi “utili sociali” si trasformano in un rendimento per l’investitore.

Il giornale italiano ha affrontato l’argomento dei “bond a matrice solidale”, poiché si stima che questo tipo di obbligazioni abbia raggiunto, grazie alle emissioni dell’ultimo anno, la considerevole cifra di 300 milioni di euro. È significativo che il titolo dell’articolo sia “Social bond ad alto gradimento”. Il termine, infatti, è stato spinto da alcuni istituti di credito per creare immagine sulle proprie emissioni. Tuttavia, nella realtà, è un concetto che non esiste. E, soprattutto, assai diverso dai Social impact bond. Tanto che lo stesso articolo del Sole, nel testo, lo spiega: il “social bond all’italiana” non è altro che un’obbligazione che chiede di accettare rendimenti (in genere) bassi a chi la sottoscrive, e che prevede che una parte dell’incasso sia destinato dalla banca a fini sociali. Dunque, non è altro che fornire alla banca risorse (appunto, in media, a buon mercato) da destinare, ancora una volta, ad attività di erogazione.

La sensazione è che, se si cercano davvero «formule inedite – si legge nel Manifesto per un’economia sociale, firmato a dicembre da 40 personalità impegnate tra finanza e terzo settore – quali ad esempio imprese sociali costituite ex novo come partnership societarie miste tra attori profit, non profit e pubblici», i messaggi debbano essere più decisi. Se la «formula inedita» porta a un’integrazione tra capitalismo e società, ovvero a formule di investimento impact, e non più a meccanismi di erogazione senza vincoli o impegni per chi riceve risorse, si cominci a chiamare le cose con il proprio nome.

E si propongano i primi veri social bond italiani.

A cura di ETicaNews