8 luglio 2013 – È possibile che in un’azienda gli operai decidano di lavorare gratis? Oppure che, in casi di estrema difficoltà, finiscano per mettere i propri soldi nel bilancio della società? Accade in Italia, fuori dalle regole e dagli schemi. Anzi, talvolta addirittura contro gli schemi, creando non pochi imbarazzi nei sindacati. Questi ultimi, per loro natura, sono portati a definire contrattazioni collettive ed egualitarie, e a sottrarre, attraverso una statuizione dell’equità aziendale, il potere sovrano di equità che talvolta si arroga l’imprenditore.

È un ripetersi dell’etica della burocrazia contro l’etica individuale.

L’occasione per parlare di questi temi la offre l’articolo apparso nel week end sul Corriere della Sera e firmato Dario Di Vico, che racconta di alcune aziende venete in cui gli operai hanno deciso di lavorare mezz’ora al giorno in più, senza avere incrementi di salario. Ovvero, hanno accettato di lavorare gratis. L’accordo ha acceso ogni genere di allarme sindacale, poiché ritenuto foriero di un generale annacquamento delle regole.

Il caso consente di ragionare su una grande distonia italiana, e riproporne una strada di congiunzione. Da un lato, è tangibile l’eccesso di briglie regolamentari e sindacali del lavoro in dimensioni da piccola e media impresa. Dall’altro, l’Italia registra la presenza di realtà a grande condivisione del lavoro, che per decenni hanno legato in un unico destino piccoli imprenditori e dipendenze. La storia racconta esempi molteplici di come questo abbia costituito la forza del territorio in diverse fasi storiche e in diverse aree del Paese. L’ultimo esempio riportato da ETicaNews, è il caso di Mirandola, dove la coesione sociale tra imprese e società ha consentito una rinascita a tempi accelerati dal terremoto, per giunta enfatizzando i temi della sostenibilità.

Questa distonia – imprese condivise; imprese inbrigliate da regole superate – conduce a un’altra manchevolezza nazionale: l’assenza di cultura di Corporate social responsibility. Ovvero, la non consapevolezza di un modo differente di fare impresa, che ribalti le strategie d’antan e ponga gli stakeholder al centro delle dinamiche aziendali. Questa assenza di cultura, attenzione, non significa assenza di condivisione. L’azienda che ottiene il lavoro gratuito dei dipendenti evidenzia un grado di coinvolgimento invidiabile e, probabilmente, mai raggiungibile in una grande corporation. E vale qui la pena ricordare anche la “Csr kantiana di Barilla”, dove le politiche di social responsibility si legano ai valori morali generazionali dell’imprenditore, e sembrano procedere incuranti delle complessità della rendicontazione internazionale (G4 o Iirc che siano). Ma non per questo raggiungono risultati secondari. Anzi.

Tutto questo, tuttavia, evidenzia comunque una mancanza. Ovvero una situazione di “mancata valorizzazione” delle grandi opportunità della Csr implicita delle pmi nazionali. La struttura imprenditoriale italiana ha dimostrato nei decenni, e sta dimostrando in questi anni, di godere di un asset unico a livello mondiale: l’attaccamento territoriale. Ossia quella integrazione con la società che può rivelarsi una marcia formidabile.

Se questa marcia prendesse la via di una “regolamentazione” della Csr, cioè di una presa di coscienza, una statuizione nell’azienda, una concretizzazione strategica chiara e trasparente, potrebbe essere la pietra filosofale del modello di imprenditoria diffusa italiana del futuro.

Sostituire le superate regole sindacali con le regole della Csr, insomma, potrebbe cancellare la distonia.

E risultare il vero strumento vincente dell’Italia piccola, ma inossidabile, del futuro.

 

A cura di ETicaNews