7 gennaio 2013 – C’è molta confusione sotto il cielo della finanza etica. Negli ultimi giorni del 2012, in Parlamento sono emersi spunti normativi contrastanti che riflettono il mettersi in moto di forze notevoli sullo scacchiere. Entrambi riguardano la Legge di Stabilità 2013 approvata lo scorso 24 dicembre ed entrata in vigore il primo gennaio 2013: il primo spunto è rimasto solo un emendamento (ritirato) sulla possibilità per le imprese sociali di distribuire utili; il secondo, invece, è contenuto nella legge, e prevede la tassazione delle transazioni finanziarie (Tobin Tax) e l’esclusione, da queste, della finanza etica. Considerati assieme, riflettono la delicatezza della partita sul business sociale e l’apparente distonia del legislatore, e spingono a proporre il tema della finanza e dell’economia etica come un argomento non secondario delle prossime campagne elettorali.

Il provvedimento sulle imprese sociali è quello, tra i due, che ha suscitato meno richiamo sui media. Eppure, si è trattato di un passaggio estremamente significativo. In primo luogo, per i contenuti proposti: l’emendamento (vedi a pagina 10 del documento allegato) si proponeva di intervenire sulla legge 24 marzo 2006 numero 155, ovvero sulla contestata disciplina italiana dell’impresa sociale, che pare non aver ottenuto i risultati sperati in termini di aziende aderenti (salvo uno sterminato numero di cooperative). In particolare, il documento proponeva di eliminare il divieto assoluto della distribuzione di utili, sostituendolo con un tetto al 50% degli stessi, e per specifiche categorie di soci, i quali non potessero comunque avere quote di controllo dell’impresa.

Soprattutto, il passaggio è stato significativo per le reazioni suscitate. Pur essendo stato proposto con una formula cosiddetta bipartisan (Pdl e Pd), ha scatenato un fuoco di fila di opposizione. La forza del fuoco di sbarramento è stata sintomatica di quanto “la distribuzione degli utili” sia un limite ritenuto invalicabile, una linea del Piave, per un certo sistema-Italia che crede nel business sociale.

Certo, l’emendamento può essere stato proposto in modo maldestro, indubbiamente con tempi poco consoni alla concertazione, più che mai dovuta per un argomento tanto sensibile. Il risultato è stato che i due relatori, il senatore del Pd Giovanni Legnini e Paolo Tancredi (Pdl), hanno sottolineato di aver presentato l’emendamento su «espressa richiesta del Governo», ma che hanno poi provveduto a ritirarlo «prendendo atto della contrarietà espressa da parte di molti soggetti interessati».

Forse meritava altro destino. E forse avrà un diverso futuro. Il fatto che si cominci a parlare (e a chiedere: interessante l’appello del Comitato i3S targato Bocconi), è significativo dell’esistenza di soggetti pronti a investire sul business sociale se trovassero le condizioni giuste. Si tratta di capitali di cui più volte ETicaNews ha sottolineato l’esistenza, o le tracce di esistenza (si vedano gli approfondimenti su Uman Foundation od Opes). Appunto, la parola giusta è: capitali. È questo termine che suscita il maldistomaco. E che, come per reazione, finisce per essere identificato in via analogica col concetto di “speculazione” (parola ripetuta come un mantra tra coloro che si sono opposti alla modifica della legge 155).

È qui che vengono alla luce le contraddizioni.

Per renderle chiare, si prenda l’esempio benchmark della finanza etica in Italia: il Gruppo Banca Popolare Etica. Innanzi tutto, Etica Sgr è una società per azioni, controllata al 45% da Banca Etica, sul cui sito viene riportata, in homepage, una frase emblematica: «Il capitale non è malvagio in sé; è il suo uso sbagliato che è malvagio. Il capitale, in una forma o un’altra, sarà sempre necessario», [M. K. Gandhi]. Da parte sua, la capogruppo Banca Etica, ha “scelto” negli anni di non distribuire dividendi, ma ciò non significa che questi non siano ammessi né distribuibili. Nell’articolo 22 dello statuto, infatti, si legge che «il Socio partecipa per intero al dividendo deliberato dall’Assemblea».

L’esempio serve per evidenziare come il concetto di capitale, e con esso quello di dividendi, possa essere declinato in molteplici forme, anche quelle socialmente responsabili. Tanto che – e qui si arriva al secondo provvedimento della Legge di Stabilità – il legislatore ha inteso premiare la “finanza etica e socialmente responsabile”, esentandola dal pagamento della Tobin Tax.

In questo caso, si arriva a parlare espressamente di “finanza”, non di terzo settore o di non-profit. Al punto e) del comma 494 della Legge di Stabilità si legge che l’imposta (la Tobin Tax) non è dovuta per «le transazioni e alle operazioni relative a prodotti e servizi qualificati come etici o socialmente responsabili a norma dell’articolo 117-ter del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e della relativa normativa di attuazione». Il decreto legislativo 58 è il Testo unico della finanza, integrato con l’articolo 117-ter secondo quanto previsto dall’articolo 14 della legge n. 262 del 28.12.2005 e dal regolamento Consob n. 16190 del 29.10.2007 . Una serie di provvedimenti che coinvolgono una serie di Authority e che fanno impressione. Tuttavia, dai quali è difficile comprendere dove saranno i paletti di ciò che è etico e ciò che non lo è nei confronti di Tobin.

Insomma, c’è un po’ di nebbia, attorno all’individuazione di questi soggetti. La sensazione è che, fino a oggi, legislatore e varie Authority non si fossero troppo curate di entrare nel dettaglio.

Cosa emergerà da questa nebbia? È possibile che il provvedimento spinga al greenwashing diversi operatori. Cioè che imponga una riflessione sull’opportunità o meno di ri-dipigersi come entità socialmente responsabili. Ci saranno, in tal caso, squali che si trasformano in pesci rossi. Tale mutazione è moralmente condannabile. E aprirà il mondo ortodosso della finanza etica a forme di lucro impropriamente giocate su una responsabilità sociale di facciata. Tuttavia, va ricordato che è stato condannabile anche il primo approccio alla Csr delle industrie italiane, fino a pochissimi anni fa concentrate esclusivamente sui ritorni di immagine che la responsabilità sociale poteva garantire. Eppure, in seguito, questo primo fuorviante approccio ha consentito l’avvio di una riflessione, la percezione di un mercato che cambiava, la consapevolezza di strategie che richiedevano scelte ben più profonde di quelle di facciata. Perché non attendersi, da una prima opportunistica trasformazione etica, una prospettiva di operatori consapevoli della bontà della propria scelta?

Entrambi i provvedimenti, dunque, possedevano un alto potenziale di cambiamento, capace di scardinare muri blindati oltre i quali si sono protetti soggetti che, per decenni, sono stati i depositari naturali del business sociale ed etico. Soggetti, tuttavia, per i quali sono aumentate nel necessità (e le opportunità) di aprire un portone verso il mondo della finanza.

Uno dei due provvedimenti è stato respinto perché, oltre la palizzata, in troppi l’hanno considerato una bomba a orologeria. L’altro provvedimento è legge perché, probabilmente, in pochi, oltre la palizzata, si sono accorti di quanto sia ampio il varco generato.

Sarebbe interessante, nelle campagne elettorali che verranno, se qualcuno ragionasse su una politica capace di disinnescare entrambe le bombe. E di farne un motore coordinato a energia pulita.

 

A cura di ETicaNews