29 ottobre 2012 – Circa 2.500 euro. In questa cifra è stato quantificato il valore della vita di un operaio pachistano. La catena tedesca di abbigliamento low cost “Kik” ha offerto un risarcimento di 1 milione di dollari (772.000 euro) alle famiglie delle quasi 300 vittime dell’incendio di una fabbrica tessile in Pakistan, dalla quale acquistava la produzione e nel quale lo scorso settembre sono morti 289 operai. La notizia proviene dall’agenzia stampa nazionale francese Afp che cita come fonte un sindacato locale.
La fabbrica tessile apparteneva al gruppo pachistano “Ali Enterprises”, che fabbrica vestiti esportati in Occidente, come i jeans “Okay” della Kik. Si tratta di una delle centinaia aziende che affollano il distretto industriale di Karachi, la megalopoli affacciata sul mare Arabico che con i suoi 18 milioni di abitanti, il porto e la sua cintura industriale costituisce l’ossatura dell’economia del Pakistan. Il settore tessile e abbigliamento è una delle maggiori voci dell’export del Paese. L’incidente aveva rivelato condizioni di lavoro miserevoli degli operai della Ali Enterprises, costretti a lavorare a scapito della sicurezza per produrre di più. Lo stabilimento impiegava circa 1.500 persone, e il singolo turno di lavoro 450. L’inchiesta ufficiale ha tempi lunghi, ma se le cause dell’incendio non sono state chiarite formalmente, si conoscono già le condizioni dello stabilimento: le finestre dei primi piani erano chiuse da sbarre, le porte quasi tutte chiuse, la fabbrica era sovraffollata e non c’erano attrezzature per spegnere le fiamme, alimentate dai ritagli di stoffa e materiali sintetici sparsi anche sulle scale. Non esistevano uscite di sicurezza.
Nonostante questo, la fabbrica aveva ottenuto una certificazione da parte di una società europea. La Kik si è, infatti, difesa dicendo che si preoccupava delle condizioni di lavoro nella fabbrica pakistana: tanto che nel 2006 aveva commissionato regolari ispezioni alla “Ul Responsible Sourcing”, che aveva certificato la sicurezza di quello stabilimento. L’autorevole magazine tedesco “Der Spiegel” ha scritto che Kik aveva proposto di pagare inizialmente mezzo milione di dollari (383.700 euro), quindi meno di 1.500 euro a morto. Ma il capo della federazione nazionale dei sindacati, Nasir Mansoor, ha detto che la sua organizzazione e la Ong “Clean Clothes” sono riusciti a far alzare il prezzo dell’indennizzo. Sotto la minaccia di essere portata in tribunale, Kik ha accettato di raddoppiare la compensazione.
Dalla vicenda è nata anche una campagna di “Abiti puliti“, parte della rete internazionale Clean Clothes Campaign, che lancia un appello a non dimenticare le vittime di quell’incendio: e il modo migliore è chiedere conto alle aziende europee committenti di quella fabbrica. La campagna Abiti puliti/Clean Clothes chiede che la Kik renda noti i nomi degli altri acquirenti della Ali enterprises e rivelare i dettagli delle ispezioni di sicurezza.
Fausta Chiesa
A cura di ETicaNews