6 febbraio 2013 – Redistribuire o non redistribuire gli utili di un’impresa sociale? Il dilemma torna di attualità sullo spunto di una normativa approvata nel Regno Unito il mese scorso e la notizia è stata riportata in Italia dall’associazione Iris Network , che punta così a rilanciare uno dei punti di discussione più cruciali sul social business in Italia.

All’inizio di gennaio, il governo britannico ha imposto una svolta “liberale” alla normativa che regola le imprese sociali, facendo approvare una legge che estende ad altre forme giuridiche, oltre alle già previste canoniche Community Interest Company e charity, la possibilità di definirsi impresa sociale, a patto che nello statuto dichiarino di perseguire finalità di interesse generale per la comunità.

La svolta liberale è stata dettata dal fatto che nel Regno Unito una disposizione il ministero della Salute obbliga alcune strutture del servizio sanitario nazionale (l’Nhs) a trasformarsi in impresa sociale, ma la trasformazione stava incontrando difficoltà a causa delle restrizioni della normativa precedente. Di fatto, la nuova normativa allarga il campo degli spin out delle aziende della pubblica amministrazione (in pratica le nostre Asl).

Se nel Regno Unito è la nuova definizione fatta dell’impresa sociale dal ministero della Salute ad aver destato le critiche del settore perché troppo vaga, in Italia è un altro aspetto della legge all’attenzione degli addetti ai lavori e in particolare dell’associazione italiana degli Istituti di Ricerca sull’Impresa Sociale: la possibilità di distribuire utili agli azionisti, che nel Regno Unito è ora possibile purché per meno del 50% dei profitti.

«Come Iris Network – dice il segretario Flaviano Zandonai – siamo a favore della distribuzione degli utili. Sappiamo che questa possibilità, prevista da un emendamento della Legge di Stabilità (e di cui anche EticaNews ha parlato, ndr), è stata poi eliminata, ma speriamo che dopo le elezioni si possa riprendere il dibattito e cambiare la legge italiana sull’impresa sociale. La posizione di Iris Network è che il vincolo della non distribuzione del dividendo sia troppo stretto. Ci sono diversi investitori con interesse al social che sarebbero disposti a investire in un’impresa sociale se distribuisse utili. Poi sinceramente credo che ci siano aspettative troppo alte sull’entità che potrebbero avere tali utili».

L’emendamento inglese riapre dunque il caso e, nelle speranze di Iris Network, anche la legge. «Tutto quello che succede a livello internazionale è di auspicio a che dopo le elezioni se ne torni a parlare. Serve una politica, la legge è troppo poco conosciuta, la normativa non è riuscita ad attrarre il movimento potenziale che esiste e che è necessario vista la trasformazione in atto del welfare, con servizi come per esempio quelli all’infanzia che non sono più erogati interamente dal pubblico».

Il modello inglese a Iris Network non dispiace, perché prevede anche un altro punto chiave, un “asset lock” sul patrimonio: nel caso l’impresa sociale chiuda o sia venduta deve essere trasferita a un’altra impresa sociale.

Ma visto che potersi chiamare impresa sociale è – come sostiene Iris Network – un vantaggio competitivo, chi controlla le finalità e gli effetti sociali? «Si possono calcolare, ci sono parametri e metodi per rendicontare la missione sociale – sostiene Zandonai – . Anche in Italia si potrebbe introdurre la figura del regulator che chiede il rendiconto periodico della socialità, come accade nel Regno Unito. Del resto, le imprese sociali in Italia sono obbligate a fare il bilancio sociale e depositarlo in Camera di Commercio. Verificare non è affatto impossibile».

Queste le proposte di Iris Network per la riforma della norma sull’impresa sociale.

1. Riconoscere in via obbligatoria lo statuto di impresa sociale a tutte quelle organizzazioni private, comprese quelle non profit, che ai sensi di legge esercitano in via stabile e continuativa un’attività economica finalizzata alla produzione di beni o servizi di utilità sociale in vista di obiettivi di interesse generale e che, di conseguenza, sono chiamate ad assumere i requisiti operativi previsti negli articoli seguenti.

2. Superare il vincolo dei settori di attività individuati dalla norma per esercitare attività di impresa sociale, introducendo un “test di socialità” sul modello del regulator delle Community Interest Company inglesi e basato su indicatori di impatto socio economico monitorati periodicamente dalle Camere di Commercio presso le quali le imprese sociali sono chiamate a depositare anche il bilancio sociale redatto obbligatoriamente.

3. Allentare il vincolo alla distribuzione degli utili e vincolare il patrimonio, prevedendo la possibilità di distribuite gli utili generati dall’impresa sociale in forma calmierata grazie all’adozione di un tetto massimo (“cap”) e rendendo indisponibile e inalienabile il patrimonio che in caso di chiusura dell’impresa sociale sarà destinato a fondi settoriali o ad altre imprese della stessa tipologia.

4. Riconoscere tutte le imprese sociali costitute ai sensi della normativa come Onlus di diritto.

Fausta Chiesa

 

A cura di ETicaNews