1 aprile 2014 – La finanza etica ha tante sfaccettature e una di queste è sicuramente la deontologia: che cosa significa svolgere con correttezza il proprio lavoro? Come mi devo comportare con i clienti? In che cosa consiste un’informazione finanziaria trasparente? Cosa fare se mi trovo in una situazione di conflitto d’interessi? Temi che sono contigui a quelli delle scelte di investimento sostenibili, sui quali si è concentrato il Dossier Caccia allo SRI i cui risultati sono stati in parte presentati al Salone del risparmio nella conferenza organizzata da ET.

A queste domande ha cercato di dare una risposta il “code of ethics and standards of professional conduct” elaborato dal Cfa Institute, un’organizzazione no profit fondata negli anni 60 da Benjamin Graham, il maestro di Warren Buffet, che raccoglie 100 Paesi. Tra questi, l’Italia, dove l’adozione di questo codice però è ancora prerogativa di pochi: sono solo 460 i professionisti italiani che hanno passato la certificazione Cfa (Chartered financial analyst), un diploma della finanza che nei Paesi anglosassoni e in Svizzera è, al contrario, diventata, pur informalmente, la condizione indispensabile per poter esercitare la professione.

La certificazione si rivolge a tutti i professionisti della finanza: gestori, analisti finanziari, promotori, consulenti, private bankers, investor relators. Prevede tre anni di formazione e tre prove d’esame: sulle materie di macro-economia, sull’analisi (fondamentale, tecnica e di bilancio) e sulla gestione dei portafogli. Fil rouge della certificazione è l’adozione, appunto, di un codice etico: «Il senso di questo codice è innanzi tutto quello di mettere al centro l’interesse del cliente – spiega Matteo Cassiani, presidente di Cfa Society Italy – a seconda delle diverse categorie professionali cui si rivolge il codice, che sia il gestore di portafoglio per l’analista sell-side o il piccolo risparmiatore per il consulente finanziario». Lo standard di comportamento è ampio: «Per un gestore – aggiunge – significa, per esempio, fornire un’informazione chiara ed esauriente e rispettare i cosiddetti “Gips”, gli standard di presentazione delle performance dei prodotti, oltre che naturalmente rispettare i criteri di adeguatezza e appropriatezza nell’offerta del prodotto al cliente». Per un consulente significherà specificare nero su bianco le commissioni che incassa dalle case di gestione. Per gli analisti invece si tratterà di gestire al meglio il rapporto con gli emittenti, «che non deve inficiare l’indipendenza e la correttezza dell’analisi». Potranno, per esempio, rapportarsi sui dati fattuali senza condividerne le conclusioni con l’azienda e all’interno del report dovranno distinguere tra dati fattuali e previsioni o opinioni.

Il vademecum deontologico va di pari passo con la formazione: «Proponiamo l’adozione di una certificazione internazionale per tutti i consulenti, i gestori e i promotori così come l’adozione di un codice deontologico spendibile internazionalmente», puntualizza Cassiani. L’idea di fondo è che in tutti gli ambiti del settore finanziario, «l’iper-regolamentazione non necessariamente riesce a evitare i cattivi comportamenti – conclude – mentre l’autodisciplina, se si comprende che l’interesse del cliente è conveniente anche per l’operatore per costruire un rapporto proficuo di lungo termine, può permettere di ridurre comportamenti scorretti e ricostruire la fiducia del risparmiatore verso il settore finanziario».

Camilla Gaiaschi

A cura di ETicaNews