26 luglio 2013 – Nero o bianco? Denaro o benessere sociale? Profit o Non Profit? Era piuttosto netta, apparentemente, la scelta che il New York Times ha chiesto di fare ai suoi lettori attraverso la rubrica “You’re the Boss” (Il capo sei tu) accessibile nella versione online del quotidiano statunitense. Il 10 luglio infatti, è stato presentato il caso di Saul Garlick, trovatosi in prima persona, nel 2010, a dover prendere la difficile decisione – profit o non profit? – in merito alla struttura da adottare per la sua organizzazione, ThinkImpact.

Garlick era attivo già da diversi anni nel campo del sociale, avendo dato il via ad un programma per la costruzione di scuole nel Sudafrica rurale fin dal 2002, all’età di 18 anni. In seguito, nel 2004, aveva ampliato la sua visione fondando l’organizzazione “Student Movement for Real Change”, attraverso la quale studenti di diverse università americane venivano inviati nei Paesi in via di sviluppo, dove cercavano di sviluppare progetti di business sociale con le comunità locali. Nel 2007 Garlick, che dedicava ormai tutto il suo tempo all’organizzazione, principalmente alla ricerca di sostenitori per la sua causa, iniziò a percepire un salario e decise di assumere un neolaureato per occuparsi del lavoro quotidiano. Si aspettava che ciò avrebbe reso tutto più facile. Ma non fu affatto così.

Nel 2009 l’organizzazione, ormai rinominata ThinkImpact, raccoglieva circa 400.000 dollari l’anno per finanziare i suoi progetti, ma il modello di gestione adottato non era sostenibile. Garlick e i suoi collaboratori dovevano gestire i vari programmi, raccogliere e comunicare informazioni per la trasparenza e, soprattutto, continuare a raccogliere fondi. «Molti giovani impiegati in entità non profit si riducono a essere mendicanti – ha dichiarato in seguito Garlick – costretti a costruire e ricostruire l’aereo in volo». Troppo impegnati a garantire la sopravvivenza della propria organizzazione non sono in grado di concentrarsi sul raggiungimento dei fini che la stessa si prefigge. Nel 2010, ThinkImpact si trovò impossibilitata a pagare gli stipendi. All’uscita di un workshop con altri operatori del sociale e con alcuni investitori, Saul Garlick capì di dover compiere una scelta.

Si presentavano tre opzioni per il futuro. La prima era quella di rimanere un ente non profit. In questo modo l’organizzazione avrebbe potuto contare sul sostegno di due università e su quello di altri donatori, ma Garlick riteneva di non poter reperire fondi addizionali per accrescere la scala dei suoi interventi. La seconda opzione era quella di chiudere con il non profit dando il via ad un’impresa commerciale. In questo caso le università avrebbero pagato delle quote per inviare i loro studenti in Africa, al fine di fare esperienza sul campo partecipando ai progetti di business sociale della società. Garlick avrebbe anche avuto accesso a finanziamenti esterni da parti di soggetti interessati a sostenere ThinkImpact e la sua attività a fronte di una possibilità di ritorno economico. Nonostante l’entusiasmo dello stesso Garlick e dei suoi collaboratori per la possibilità di risolvere in questo modo i problemi di gestione dell’organizzazione, tale opzione presentava dei rischi. Questi erano legati alla possibilità di confondere i potenziali clienti sui reali propositi dell’organizzazione, facendo sì che le Università non volessero lavorare con una società a scopo di lucro. La terza opzione prevedeva un modello ibrido. Mantenere lo status di non profit, avviando una sussidiaria di tipo profit. La parte non profit avrebbe potuto richiedere delle donazioni per alcuni progetti mentre quella profit avrebbe attinto alle fonti di finanziamento tradizionali. L’ambiguità e i potenziali conflitti di interesse tuttavia avrebbero potuto influenzare negativamente lo sviluppo nel lungo termine.

Il problema della sostenibilità dei modelli di finanziamento delle organizzazioni non profit è di estrema attualità. Vi sono stati degli importanti cambiamenti a livello globale e la crisi economica ha profondamente modificato le logiche secondo cui è possibile operare nel campo del sociale. Le disponibilità finanziarie di soggetti pubblici, fondazioni e donatori in generale sono diminuite, mentre la richiesta di servizi critici è aumentata in maniera drammatica. Si guarda al mondo della finanza per nuove forme di supporto alle attività sociali. Un esempio è il recente sviluppo dei social impact bond. Anche ETicaNews ha trattato spesso l’argomento. Parallelamente si è acceso il dibattito sul significato dell’impresa sociale, anche per i fallimenti e la crisi di fiducia nei confronti del modello capitalistico classico. L’esperimento del New York Times si inserisce dunque nell’acceso dibattito sulle caratteristiche che devono avere gli organismi impegnati nella creazione di valore sociale e su come debbano essere finanziate le loro attività.

Prima di lasciare la parola ai lettori, il quotidiano ha richiesto il parere di tre esperti sulla questione, rispettivamente un accademico, l’amministratore di un’entità non profit, e un imprenditore sociale. Secondo Pamela Hartigan dello Skoll Centre for Social Entrepreneurship dell’Università di Oxford, Garlick non avrebbe dovuto creare nessuna entità profit, «dopotutto non profit non è sinonimo di nessun ricavo, che può essere ottenuto tramite un approccio volto a ottenere dei pagamenti in cambio dei servizi erogati». Di diverso avviso Jonathan Lewis, fondatore di MicroCredit Enterprises, un’impresa sociale poi convertita in organizzazione non profit, secondo il quale «ThinkImpact avrebbe dovuto diventare una nuova compagnia commerciale, così da poter crescere liberamente basandosi sui ricavi, evitando di dover dipendere dall’incostanza dei donatori». Infine, Shivani Siroya, fondatore e CEO di InVenture, un’organizzazione ibrida, ha posto l’accento sul fatto che «nessuna struttura societaria pone dei vincoli all’ottenimento di ricavi. Una realtà può realizzare guadagni e ottenere allo stesso tempo donazioni, le quali possono garantire la sostenibilità ai progetti fino all’entrata a regime, o supportare quelli che non consentono ricavi». Perciò, abbandonare la struttura non profit può non essere suggeribile troppo rapidamente «per una questione di marketing e del modo in cui ci si interfaccia con il pubblico e i sostenitori».

Il 15 luglio, il New York Times ha pubblicato in un follow-up i risultati dell’esperimento. Molti utenti si sono detti d’accordo con Siroya auspicando che ThinkImpact avesse optato per produrre ricavi mantenendo lo status di soggetto non profit, piuttosto che trasformarsi in un’impresa commerciale. Altri, tuttavia, hanno notato come il settore non profit stia cambiando, e come ci sia la possibilità di direzionare un’impresa profit principalmente alla creazione di impatti sociali positivi piuttosto che alla realizzazione di mero profitto. Alcuni lettori hanno infine evidenziato il potenziale di uno status legale che incorpori la creazione di valore sociale nella core mission di una compagnia, in forma di benefit corporations o di impresa a “basso profitto”.

Anche la strada che prese Saul Garlick nel 2010 è stata resa nota. ThinkImpact è diventata una società commerciale, una realtà profit, ma ha mantenuto i suoi scopi sociali. Il fondatore, in un’intervista con il quotidiano, si è detto d’accordo con le considerazioni espresse da Jonathan Lewis. Secondo la sua opinione «il dibattito profit vs non profit riguarda solamente le strutture e la sua importanza è sovrastimata». Garlick prosegue la sua analisi affermando come sia un errore «pensare che un’organizzazione posso essere volta alla creazione di benessere in alternativa alla creazione di profitto, come è un errore credere che il non profit sia tuttora la miglior forma per fare del bene». Il giovane CEO di ThinkImpact prosegue definendosi sostenitore convinto degli organismi non profit, ma dicendo di non poter fare a meno di notare come molto organizzazioni governative falliscano, o manchino di efficacia, a causa dei problemi di finanziamento. La sua decisione di passare al profit è stata dettata principalmente dalla possibilità di interfacciarsi con gli shareholder piuttosto che con i donatori. Garlick si è detto cosciente di quanto possano essere esigenti gli investitori ma di «essere in grado di selezionare quelli che credono nella mission della compagnia e che sanno essere pazienti». Il maggior beneficio di questa scelta è stata la possibilità di «dedicare più tempo alla creazione di valore e allo sviluppo di progetti sempre migliori potendo contare sulle forme di finanziamento tradizionali per reperire facilmente i fondi necessari».

La decisione di Saul Garlick può essere certamente discussa, ed in futuro si vedrà se è stata una buona scelta in termini di efficacia ed efficienza per le attività dell’organizzazione.

Il dibattito è aperto, e la scelta fra profit o non profit appare sempre meno netta.

Filippo Franzoi

 

A cura di ETicaNews