23 luglio 2013 – Ci sono tragedie che lasciano il segno. Il disastro avvenuto in Bangladesh, dove hanno perso la vita 300 persone nel crollo di una palazzina da tempo dichiarata inagibile, è una di queste. E nonostante il tempo non si possa riavvolgere, per lo meno si sono riaccesi prepotentemente i fari su una questione spesso discussa: la sicurezza della supply chain. Una ricerca di RobecoSam, un asset managment sostenibile, cerca di illustrare l’approccio più efficiente ed efficace, partendo da un assunto decisivo: la responsabilità deve prendersela il capofiliera. L’analisi mostra come, nonostante nell’industria tessile sia migliorata la consapevolezza rispetto al problema, altri tipi di industrie si sono mostrate più attente negli ultimi anni. Tra queste l’industria elettronica e quella dei prodotti di cura personali. La maglia nera va invece all’industria dell’arredamento che si mostra la meno attenta e sensibile alla tematica.

L’analisi di RobecoSam comincia dunque a monte, chiarificando un punto spesso controverso: ovvero quale sia il grado di responsabilità delle case madri nel caso in cui i loro supplier non rispettino i diritti dei lavoratori. L’analista Elsa Ben Hamou Dassonville, autrice dell’analisi, non ha dubbi: le compagnie hanno piena responsabilità nei confronti della loro filiera produttiva, e, di conseguenza, è loro dovere vigilare in modo che tutti i diritti siano rispettati.

I motivi per scegliere un approccio alla supply chain più consapevole sono vari e non tutti per forza “filantropici”. In caso di incidente, infatti, la reputazione del brand può essere messa in serio pericolo, danneggiando non solo le performance finanziarie (e conseguentemente gli azionisti), ma ponendo anche in pericolo la cosiddetta “licence to operate”, quell’insieme di norme sociali e legislative che danno il diritto a un’azienda di portare avanti la produzione. Ma c’è anche altro: «Le aziende devono essere consapevoli che, scegliendo di delocalizzare, questo ha una ricaduta diretta sulle comunità locali. A queste ultime si deve, perciò, rendere conto».

Gestire male, o con superficialità, la propria supply chain alla fine dei conti è un po’ come fare autogol: si mette a rischio la propria reputazione, la propria legittimità nel mercato. Ecco perché RobecoSam fa un appello anche agli azionisti: «Gli investitori che detengono quote del capitale in queste società – scrive Dassonville – sono esposti ai rischi di una cattiva gestione della catena dei fornitori. Perciò, anche gli investitori devono giocare un ruolo cruciale nell’incoraggiare le società a migliorare la trasparenza della supply chain».

La soluzione per migliorare le proprie filiere potrebbe venire da un approccio più “collaborativo”. Un modo efficace per meglio affrontare i rischi legati alla supply chain può infatti arrivare da iniziative che coinvolgono più stakeholder. La cosa è già avvenuta in Bangladesh dove, dopo il disastro di Rana Plaza, le diverse multinazionali hanno cominciato a firmare il “bangladesh Fire and Building safety agreement” per aumentare la sicurezza degli edifici adibiti a fabbriche.

Non è comunque semplice comprendere su quali compagnie fare affidamento. Per questo RobecoSam ha sviluppato un metodo per valutare come le imprese gestiscono la loro supply chain. In un primo step viene richiesto alle compagnie di analizzare la loro filiera in modo da identificare i fornitori “a rischio”. In un secondo momento RobecoSam definisce se l’analisi portata avanti può definirsi completa e affidabile e classifica i rischi secondo le tre canoniche categorie della sostenibilità. Sono così identificati i rischi ambientali, quelli economici e quelli sociali. A questo punto viene valutato come effettivamente le compagnie gestiscono questo tipo di rischi all’interno della loro catena di fornitura, andando però oltre le richieste e gli standard usuali. Si prende in considerazione non solo ciò che le firme affermano e ma anche l’atteggiamento nei confronti di queste problematiche. Per risolvere queste criticità è infatti essenziale un comportamento pro-attivo, così come, durante una crisi, è necessario dare risposte vere, affidabili e trasparenti.

In sintesi, RobecoSam richiede alle aziende di metterci la faccia, o meglio, il brand: i grandi marchi devono farsi ambasciatori di buone pratiche fornendo incentivi per i fornitori, formandoli attraverso training appositi e, infine, partecipando attivamente alle iniziative del settore. Ma l’analisi di RobecoSam ha un altro valore aggiunto: monitora anche la percezione dei diversi stakeholder rispetto all’impegno portato avanti dalle imprese fornendo, in questo modo, un quadro più veritiero della situazione.

Elisabetta Baronio

 

A cura di ETicaNews