17 dicembre 2012 – A voler essere cool, si può dire che è una delle buzzword più in voga negli ambienti finanziari. La parola, o meglio l’espressione in questione è impact investing. Fenomeno che in Italia, dove la traduzione suona più o meno come investimento a impatto, la scorsa settimana ha registrato un momento chiave con la presentazione di Opes Fund presso uno dei simboli dell’economia nazionale: l’università Bocconi.

All’impact investing sono in molti a dedicare attenzione e risorse crescenti nel mondo. E sul tema sono state lanciate anche di recente iniziative importanti. A fare scalpore, nel novembre 2010, fu uno studio di J.P.Morgan e Rockefeller Foundation che portò all’attenzione della community finanziaria internazionale il tema dell’impact investing, indicandolo come una asset class emergente. Da qualche anno esiste inoltre un network di investitori internazionali che lo promuove.

Non è un caso, allora, che l’ultimo rapporto di Eurosif sugli investimenti socialmente responsabili (Sri) abbia per la prima volta dedicato un capitolo all’analisi dell’impact investing, stimando in 8,75 miliardi di euro il mercato degli investimenti “a impatto”. Che sembrano interessare parecchio anche gli europei particolarmente facoltosi, i detentori di grandi patrimoni.

L’interesse, appunto, è alto anche in Italia, specie da quando è stato avviato il primo vero esperimento made in Italy di impact investing. Il suo nome è Opes Impact Fund. A proporlo è la Fondazione Opes, che è stata costituita da quattro partner: Acra, ong attiva nell’ambito della cooperazione rurale in Africa e America Latina; Fondazione Fem, che opera nella realizzazione di progetti di micro-imprese sociali nei Paesi in via di sviluppo; il consorzio Altromercato, primaria realtà del commercio equo-solidale in Italia; Microventures, organizzazione che promuove la microfinanza.

Il fondo si definisce un veicolo non profit con meccanismi profit. Le risorse che gestirà, infatti, proverranno da donazioni. Ai donatori, però, sarà richiesto un coinvolgimento non solo economico, ma anche nell’attività, ad esempio attraverso la partecipazione a comitati all’interno della vita della fondazione. Gli investimenti del fondo potranno andare dai 50mila e i 300mila euro, saranno prevalentemente (circa 80%) in equity, cioè nel capitale delle imprese sociali oggetto d’investimento (con quote di minoranza non superiori al 30%), ma anche in forma di prestiti. Con una durata media dell’investimento di 10-14 anni, a ere geologiche di distanza, cioè, dalla finanza mordi-e-fuggi che ha scatenato la crisi.

Il fondo, che dovrebbe essere pienamente operativo dal 2013, all’inizio investirà in particolare in Paesi come Tanzania, Kenya, Uganda e specialmente India, uno dei più dinamici quanto a crescita del social business. Il suo obiettivo è raccogliere in tre anni 8 milioni di euro. E di offrire rendimenti tra il 2 e il 5%, tutti destinati a essere reinvestiti.

Ma il vero obiettivo di Opes Impact Fund, come i fondatori hanno sottolineato nell’incontro di presentazione ufficiale del fondo tenutosi giovedì 13 dicembre in Sda Bocconi, è quello di andare a individuare nuovi modelli di social business scalabili, modelli cioè che hanno le potenzialità per crescere dimensionalmente e per essere trasferiti anche in altri contesti geografici e culturali rispetto a quelli di origine.

Ci riuscirà? La sfida è ambiziosa, certo. Anche perché l’impact investing, nonostante l’interesse che attira, per molti è ancora un oggetto misterioso. E deve tuttora risolvere alcune questioni non di poco conto nella prospettiva di una sua definitiva affermazione.

In linea generale, con impact investing si intende l’investimento che ha l’obiettivo di produrre risultati quantificabili non solo in senso economico, ma anche in prospettiva sociale e ambientale: ad esempio, nel campo dell’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici di base, nel campo delle energie rinnovabili e dell’inclusione finanziaria, nel supporto alle piccole cooperative di agricoltori, come quelle del commercio equo-solidale, che si trovano a competere coi giganti dell’agri-business. Spesso, il concetto è associato a quello di social business, da intendersi come quelle imprese sociali che considerano la sostenibilità economica un vincolo necessario per poter raggiungere obiettivi altri, nell’ottica della sostenibilità e del bene comune.

Tuttavia, non vi è ancora una definizione ampiamente condivisa su che cosa si possa o non possa considerare impact investing. Secondo alcune stime, poi, i fondi di impact investing nel mondo sono già qualche centinaio, ma c’è chi dice che sono valutazioni eccessive e che occorre guardarci dentro meglio prima di poter affermare che si tratta di impact investing.

C’è poi il problema della misurabilità dell’impatto sociale e ambientale dell’investimento: se nella finanza Sri, che ha già qualche decennio di storia e quindi track record importanti alle spalle, ancora non c’è vera condivisione sui metodi di analisi e valutazione delle performance sociali e ambientali delle società quotate, è ragionevole attendersi che occorra ancora qualche anno prima di poter disporre di misure e indicatori di impact investing ragionevolmente condivisi. Anche se vi sono molti studi interessanti al riguardo, come quelli sullo Sroi (Social return on investment).

Infine, c’è da affrontare una questione fondamentale per chi nell’impact investing intende mettere dei capitali che sono comunque alla ricerca di un ritorno, pur se equo, di lungo termine e che si può attendere con pazienza: si tratta cioè di definire un percorso per la exit strategy, termine con cui nel settore del private equity e del venture capital si indica il momento della vendita degli asset (tipicamente dopo il collocamento in Borsa della società in cui si è investito) e quindi della monetizzazione di un investimento. In che momento e in che modo è corretto, o semplicemente opportuno, monetizzare un investimento di impact investing?

Se fosse possibile quotare le imprese sociali in cui si è investito in una vera ed efficiente Borsa valori sociale, ad esempio, la exit strategy potrebbe essere abbastanza semplice e in un certo senso quasi automatica. C’è anche la possibilità di cedere l’investimento ad altri investitori “a impatto”, magari più grandi (fondi di fondi di impact investing?). La quadratura del cerchio, però, su questo punto non è ancora stata trovata. Ma sono in molti quelli che nel settore dell’impact investing, nonostante la sua giovanissima età, stanno lavorando per individuare almeno la miglior approssimazione possibile.

Andrea Di Turi

 

A cura di ETicaNews