10 dicembre 2012 – Lo scorso 29 novembre, Borsa Italiana ha diramato una breve nota che, per quanto ignorata dalla grande stampa, disegnava tra le righe una piccola rivoluzione. O meglio, un altro tassello rivoluzionario di quella che appare essere una presa di coscienza da parte dei soggetti finanziari italiani, dei mutamenti imposti dal mercato in chiave di Socially Responsible Investment (Sri). Nella breve nota, relativa a una delle non frequenti riunioni del Comitato per la corporate governance delle società quotate, si annunciava per il 2013 un obiettivo estremamente ambizioso e innovativo, e che potrebbe imprimere una svolta a un Paese come l’Italia dove i principi di finanza responsabile sono tuttora in forte ritardo.

«Il Comitato – si legge nel comunicato – ha approvato il piano delle attività future, avviando una riflessione sull’eventuale elaborazione di alcuni principi di comportamento rivolti a gestori, investitori e relativi advisors in materia di trasparenza delle politiche di voto, monitoraggio delle società partecipate e gestione dei conflitti di interesse (c.d. “stewardship code”)».

Questa semplice frase, a fronte del silenzio nazionale, si è guadagnata spazio in molteplici media internazionali. E con buona ragione. Il progetto del Comitato, infatti, punta dritto a stimolare formule di azionariato attivo da parte dei fondi. Imponendo agli investitori istituzionali, assieme alla «gestione effettiva» delle partecipazioni attraverso una presenza in assemblea dei soci e il confronto diretto con le società partecipate, anche il rispetto di norme di trasparenza e di monitoraggio della propria effettiva attività d’investimento. Nonché specifiche regole per evidenziare ed eludere i conflitti di interesse.

Il Comitato, insomma, sembra orientato a spingere l’Italia nel mondo della finanza Sri, per la quale l’azionariato attivo, in quanto strumento di condivisione (di wikigovernance) è uno dei tasselli fondanti (si veda il libro sul progetto di ETicaNews assieme a Etica Sgr).

Non è un segnale da poco, anche considerando che il comitato è espressione dei promotori del Codice di Autodisciplina (Borsa Italiana, Abi, Ania, Assogestioni, Assonime e Confindustria), ovvero delle principali organizzazioni economico-finanziarie italiane. La scelta rivela la consapevolezza della necessità di rinnovare le dinamiche del modello di finanza nazionale, a cominciare, dunque, dagli operatori che hanno in mano la maggior parte del patrimonio: i fondi. A questi è chiesto (o sarà chiesto) di adeguarsi agli standard più avanzati a livello internazionale. Evidentemente, anche a vantaggio degli operatori stessi (a loro volta controllati dalle banche), i quali devono riuscire a competere con player d’oltrefrontiera, evidentemente oggi più avanti nell’offrire alla propria clientela (chi versa il denaro per la gestione) servizi coerenti con la finanza Sri. Il passaggio del Comitato, insomma, è coerente con le tendenze rilevate nelle scorse settimane, di una maggiore attenzione alla consulenza sostenibile offerta dalle banche.

Il livello di ambizione del Comitato emerge in modo chiaro nella relazione annuale esaminata il 29 novembre. Nella quale viene colta «l’occasione per porre attenzione al tema degli investitori istituzionali e al loro coinvolgimento nelle fasi che scandiscono la vita della società. Come si è visto – ricorda il Comitato – il ruolo attivo degli azionisti rappresenta uno dei profili affrontati nel Green Paper europeo che si interroga sulle misure da adottare per agevolarne lo sviluppo»

Viene poi indicato, quale possibile benchmark, quanto fatto nel Regno Unito, dove, «il Financial Reporting Council ha pubblicato un codice (Stewardship Code) rivolto, in prima battuta, alla platea degli investitori istituzionali e, ove utilizzati, ai proxy advisor e consulenti». Lo scopo del codice inglese, viene sottolineato, è quello «di promuovere il successo delle società nel lungo periodo e di consentire una gestione effettiva da parte degli investitori istituzionali». Lo Stewardship Code si compone di una serie di principi la cui applicazione dovrebbe agevolare gli investitori istituzionali nell’esercizio del loro mandato in funzione del rapporto fiduciario con i propri clienti. «In particolare – prosegue l’analisi del Comitato – è raccomandato agli investitori istituzionali, tra le altre cose, di: (i) divulgare pubblicamente la loro policy su come intendono assolvere alle loro “stewardship responsabilities”; (ii) dotarsi di una policy sui conflitti di interesse e renderla pubblica; (iii) avere una chiara politica sul voto e di reporting sulle modalità di esercizio del voto; (iv) riferire periodicamente sull’effettivo esercizio del diritto di voto nonché; (v) monitorare costantemente le società partecipate».

Nel 2011, aggiunge la relazione, «l’associazione dei fondi europei (Efama) ha pubblicato un insieme di principi per migliorare la partecipazione dei fondi nelle società oggetto di investimento. I principi sono tesi a rafforzare e incrementare il livello di comunicazione con la società oggetto di investimento e si presentano molto simili a quelli contenuti nello Stewardship Code inglese».

Insomma, l’Italia sembra intenzionata a fare un balzo in avanti in termini di azionariato attivo, e a recuperare terreno riguardo a ciò che in certi Paesi comincia a essere una modalità consolidata. Per adesso, la spinta riguarda i fondi d’investimento. Ma l’importante è che chi ha le chiavi inizi ad aprire la porta.

 

A cura di ETicaNews