7 novembre 2012 – Investire in società etiche significa sicuramente fare una scelta a favore degli investimenti sostenibili. Ma è probabile che si riveli anche una mossa azzeccata sul fronte del rendimento: negli ultimi dieci anni in Borsa le società etiche hanno fatto meglio delle non etiche. Lo rivela una ricerca di Filippo Tomasi, “Il Rating Etico: un’analisi Empirica del Modello Standard Ethics”, sviluppata nell’ambito della sua tesi di laurea elaborata insieme ad Angeloantonio Russo, professore associato di Economia e gestione delle Imprese all’Università Bocconi e alla Lum Jean Monnet (controrelatore, professor Francesco Perrini).

Partendo dal dibattito tra l’economia classica e l’economia responsabile, e dalla crisi dei sistemi di rating tradizionali, Tomasi si chiede se «il rating etico sia uno strumento in grado di individuare imprese che, oltre a una buona performance dal punto di vista sociale, hanno ottenuto, nel lungo periodo, anche una buona performance dal punto di vista economico». Il rating etico utilizzato è quello dell’agenzia Standard Ethics perché «rinuncia a definire una nozione soggettiva del comportamento etico d’impresa, per assumere l’Ue, l’Ocse, l’Ilo e l’Onu come referenti unici, al fine di stabilire dei principi che siano in grado di ottenere una valutazione oggettiva e comparativa delle performance di un’organizzazione». L’analisi prende in esame tutte le società dell’indice Ftse Mib quotate in Piazza Affari e le divide tra etiche (con rating EEE-/EE+, EE, EE-) e non etiche (E+, E, E-, sospeso) monitorandone l’andamento borsistico degli ultimi 10 anni (dal 2002): si tratta quindi di un campione abbastanza numeroso e di un arco di tempo rilevante. Tra le aziende che risultavano etiche nel 2011, ultimo anno dello studio, ci sono per esempio Eni, Saipem, Enel e Stm (ma il giudizio più alto di EEE non è mai stato assegnato a nessuna impresa).

I risultati sono eloquenti: lungo tutto il periodo di osservazione le imprese etiche mostrano risultati migliori, con un tasso di crescita medio del 5,8%, superiore del 5,2% rispetto al Ftse Mib (0,6%) e del 7,5% rispetto alla categoria delle non etiche (-1,7%). Analizzando i valori anno per anno, il divario tra la performance della categoria etica e quella non etica aumenta negli anni in cui la Borsa ha sperimentato una fase espansiva (2005-2007) mentre si riduce progressivamente dal 2008 in poi, ossia nel periodo in cui il Ftse Mib ha sofferto un periodo di ribasso (tabella 6, a pag. 54). Il che può far pensare che l’etica premi soprattutto quando le cose vanno bene per tutti. D’altra parte però si nota che nel 2011 (tabella 5, pag. 53), con la crisi dei debiti sovrani che ha colpito la fiducia degli investitori e zavorrato i listini, il gruppo etico pur avendo registrato anch’esso un andamento negativo, ha comunque contenuto il calo a -2,29% contro -3,94% dell’indice Ftse Mib e soprattutto -4,58% delle non etiche. E che nel 2010 la categoria etica ha messo a segno una performance positiva (+1,33%) contro il rosso di indice e non etiche. In tempi difficili, tra un guadagno e una perdita c’è una bella differenza.

«È evidente – osserva Tomasi – che, nel lungo periodo, una selezione di portafoglio condotta con i criteri di responsabilità sociale dettati dalle principali organizzazioni internazionali, di cui Standard Ethics si è fatta portatrice in questi dieci anni, è premiante anche da un punto di vista finanziario. Il dato di borsa indica una misura chiara e immediatamente comprensibile di questo premium price».

Non solo. La seconda parte dell’analisi si è concentrata su una serie di misure contabili delle aziende. Anche qui i risultati sono confortanti. Rating sostenibili sono andati di pari passo anche con un Roe maggiore, ossia l’indice di sintesi sui risultati economici della società (in sostanza quanto rende il capitale proprio dell’azienda). Così come anche la Q di Tobin, indicatore alternativo del valore di mercato dell’azienda rispetto al valore dei suoi asset, ha mostrato una correlazione positiva con il livello di rating etico. «Ciò significa che il mercato attribuisce loro (alle imprese etiche, ndr) una valutazione superiore alla semplice somma degli asset presenti in bilancio, valutati al costo di rimpiazzo – spiega Tomasi -. Un relazione positiva tra queste due variabili può essere spiegata tenendo conto che un profilo aziendale socialmente responsabile non è un asset che può essere acquistato, come una qualsiasi immobilizzazione materiale, ma va ad accrescere la valutazione dell’impresa, grazie a un miglioramento della sua reputazione sul mercato dei capitali, permettendole di generare valore sotto diversi punti di vista e vedendo così questo valore riconosciuto dal mercato». Allo stesso tempo emerge che le imprese con un miglior livello di rating etico vengono valutate con un multiplo p/e inferiore, il che significa che sono più convenienti.

Al di là dei tecnicismi, il lavoro aggiunge un importante tassello al dibattito in corso sul valore della Csr. «È possibile affermare che l’impostazione di Standard Ethics è in grado di individuare aziende che riescono a coniugare buoni risultati sul piano sociale, ambientale e di governance, con buoni risultati sul piano economico, creando valore per tutti gli stakeholder, azionisti e investitori inclusi», dice Tomasi lanciando però il guanto per una nuova sfida. «Sarebbe interessante – conclude – arrivare a una differente segmentazione delle società del Mib, sulla base dei rating attribuiti da altre agenzie, per studiare così se una selezione di portafoglio effettuata con principi etici differenti da quelli presentati riesca a “battere” le performance delle società giudicate più sostenibili da parte di Standard Ethics».

Anna Galbiati

 

A cura di ETicaNews