8 gennaio 2012 – Levi’s disintossica i suoi jeans: dal primo gennaio 2020 produrrà denim senza l’ausilio di sostanze tossiche. L’impegno comincerà già a partire dal 2015 quando dalla filiera produttiva spariranno i Pfc (composti perflourinati), agenti cancerogeni per il sistema nervoso. Levi’s cambia, perciò, rotta e sceglie la sostenibilità, ma non senza un piccolo aiutino. Il brand ha infatti deciso di aderire alla campagna “Detox your future” (disintossica il tuo futuro), promossa da Greenpeace, dopo settimane di pressione mediatica.
Levi’s, dal canto suo, è già in buona compagnia. Il suo impegno va ad aggiungersi a quello preso, nei mesi scorsi, da altri giganti del fashion come Puma, Nike, Adidas, H&M, C&A, Li-Ning, M&S, Zara, Mango ed Esprit.
La campagna “Detox” non è infatti una novità. Lanciata da Greenpeace nel luglio 2011, dopo la redazione del primo rapporto “Panni sporchi”, ha raccolto il sostegno di oltre 4.700.000 persone. Nel primo report il cigno verde sottolineava il legame tra l’alto tasso di inquinamento dei fiumi cinesi e i rifiuti tossici prodotti dalle fabbriche tessili, molte delle quali fornitrici dei maggiori brand di abbigliamento mondiali. L’Ong ha perciò preso in mano la situazione, sfidando, di volta in volta, un marchio diverso del fashion con azioni mirate. Il problema, infatti, ha conseguenze globali e «per questo – commenta a ET. Alessandro Giannì, direttore campagne Greenpeace Italia – Greenpeace chiede ai marchi dell’abbigliamento di impegnarsi ad azzerare l’utilizzo di tutte le sostanze chimiche pericolose entro il 2020, e di imporre ai loro fornitori, cioè alle fabbriche del tessile “de localizzate” di rivelare alle comunità locali i valori di tutte le sostanze chimiche tossiche rilasciate nelle acque dai loro impianti».
Levi’s ha ufficializzato il suo impegno nelle scorse settimane dopo che oltre 200,000 persone avevano espresso il loro disappunto online. Alla campagna mediatica si era aggiunta l’azione degli attivisti con manifestazioni in oltre 80 città del mondo. Tutto ciò ha portato Levi’s a cambiare strategia, optando, inoltre, per una maggiore trasparenza: già nel giugno 2013 il brand rilascerà maggiori informazioni riguardo ai suoi 15 maggiori fornitori situati in Cina, Messico e in altri Paesi emergenti.
Le analisi condotte da Greenpeace hanno evidenziato la presenza di sostanze tossiche nelle acque di scarico di due principali zone industriali cinesi: Shaoxing e Linjiangg, nella provincia di Zhejiang. Gli ultimi studi (scarica l’estratto dell’ultima versione “tessuti tossici parte 2”), confermano la presenza di una vasta gamma di prodotti velenosi, molti dei quali possono essere associati alle lavorazioni dell’industria tessile. L’impegno di Greenpeace non si rivolge però solo alla sensibilizzazione delle grandi multinazionali. Allo stesso governo cinese sono richieste misure legislative più chiare che rafforzino gli impegni intrapresi dalle aziende, facilitando, di conseguenza, il raggiungimento degli obbiettivi prefissati.
Ma i problemi non riguardano solo le falde acquifere cinesi o quelle dei Paesi in via di sviluppo. Diversi studi redatti da Greenpeace tra cui “Dirty Laundry: Reloaded” mostrano che alcuni di questi agenti tossici, come i nonnilfenoli erossilati (Npe), vengono rilasciati dagli indumenti durante i normali lavaggi, inquinando, così, anche le risorse idriche del Paese in cui i capi sono venduti. Ai consumatori è, perciò, richiesto un comportamento più responsabile, per evitare di diventare “complici” dell’inquinamento.
Nonostante i successi registrati negli scorsi mesi, la strada da percorrere è perciò ancora tanta. Mancano infatti all’appello giganti del fashion come Victoria’s Secret, Kelvin Klein e Gap. Questi ultimi saranno presumibilmente i prossimi bersagli di Greenpeace. Chi sarà il primo ad alzare bandiera bianca? Bianco sostenibile, ovviamente.
Elisabetta Baronio
A cura di ETicaNews