20 dicembre 2012 – Volete una conferma, una garanzia, un’assicurazione che le scelte di sostenibilità da parte delle banche e delle aziende portino maggiori rendimenti? Non basteranno mai le formule. Ecco perché serve un balzo culturale. E serve esaminare la cosa dal punto di vista opposto, come avveniva nel cappello-elefante del piccolo principe di Antoine de Saint-Exupery, chiedendosi: perché non farlo? Stefano Montobbio, responsabile Sri di BSI, nella puntata precedente di ET.storie di Csr aveva denunciato l’ipocrisia di chi parla di sostenibilità senz’etica. Questa volta (quarto appuntamento del suo viaggio alla ricerca dei confini della sostenibilità nell’economia e nella finanza) lancia un altro sasso nello stagno delle consuetudini, e propone una generale “inversione dell’onere della prova”. Visto che non basteranno mai i modelli numerici a convincere chi cerca il profitto, si parta dall’estremo opposto. L’etica – e questo è dimostrato – non impone rischi maggiori o costi moltiplicati. Viceversa, c’è una prospettiva sociale ancora ignota – “un imbuto” – che potrebbe rendere conveniente investire in sostenibilità. Anche solo per “garantirsi di poter essere ancora egoisti”. Assomiglia alla logica di Blaise Pascal sul paradiso, per il quale credere era una scelta win win. L’adozione dell’etica ha un’accezione più terrena: la ricompensa può arrivare quaggiù. Magari non ora, ma in un domani non tanto lontano.

Sta a chi non ci crede, dimostrarne la disutilità.

Quanto non sia lontano la ricompensa, peraltro, lo indicano le esternalità negative di un sistema non più sostenibile. Ma la tentazione, spiega Montobbio, è quella radicata nella consuetudine, ossia quella che si traduce nel dire: “Per quale motivo evitare di distruggere comunità indigene in Paesi lontani, se questo mi permette di produrre di più?”. E per le banche la tentazione è anche più forte, visto che appaiono meno coinvolte direttamente nella distruzione di capitale naturale.

Invece, “abbiamo l’impressione che la Società stia infilandosi in un imbuto; più si entra più aumenta la consapevolezza dell’esistenza dei limiti”. Limiti che hanno già dimostrato le ripercussioni sull’economia mondiale e, principalmente, sulle banche. Per superare i quali le responsabilità sono molteplici e diffuse. Ci sono i consumatori, i clienti e, di certo, anche le banche. Per tutti, è cruciale “una specie di ritorno alle origini, al back to basic, ad una riscoperta del senso dell’investimento” quando era connesso “alle strette di mano”, quando si valutavano “anche le informazioni più umane o sociali”.

Insomma, “qual è lo scopo della vita? Diventare più umani o produrre di più?”. E se si trovasse una via che concilii entrambe le strade? Perché no!?

Perché no!?
di Stefano Montobbio – Responsabile Sri di BSI

 

“Mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li spaventava. Ma mi risposero: ‘Spaventare? Perché mai uno dovrebbe essere spaventato da un cappello?’. Il mio disegno non era il disegno di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un elefante.”

Sarà, ma io mi sono sempre chiesto per quale motivo il piccolo Saint-Exupéry si stupiva per questa risposta. Non era un cappello, ma una collina del Far West. Dietro, nascosto tra le rocce, un gruppo di Apache era pronto ad assalire la prima carovana di passaggio…

C’è poco da fare, la storia, il vissuto o il ruolo delle persone porta a vedere le cose diversamente, siano esse coscienti o no. L’elefante, la collina o il cappello appaiono come tre facce della stessa realtà.

Così la domanda di Erich Fromm: “Qual è lo scopo della vita? Diventare più umani o produrre di più?” può avere diverse risposte. La nostra è chiara, in qualche modo ne abbiamo parlato negli articoli precedenti. Ma se rivolgo la domanda a un’azienda? Almeno a prima vista appare evidente come uno degli scopi di un’impresa sia proprio quello di produrre di più.

Quali sono allora le motivazioni che possono spingere un’impresa a imboccare strade più sostenibili? La risposta non è immediata e pur con tanti sforzi è difficile trovare motivazioni talmente forti ed irrefutabili da convincere un’organizzazione a modificare il suo modo d’operare. Oggi è non è più impossibile, ma non è nemmeno facile.

Questo è stato l’ostacolo successivo. Occorreva capire il senso pratico di quello che volevamo fare, trovare delle motivazioni in grado di convincere chi ci ascoltava che è possibile modificare delle organizzazioni complesse. Noi vorremmo vivere in un mondo migliore, meno inquinato, più solidale, ma come posso convincere un’impresa ad andare in questa direzione se il suo scopo è produrre di più?

Ci sembra che da qualche parte esista un ingranaggio sbagliato, montato a rovescio o con un piccolo difetto di costruzione che non fa funzionare la macchina come dovrebbe. Se lo scopo della vita è di diventare più umani, il mondo che costruiamo dovrebbe aiutarci ad andare in questa direzione. La società, l’economia e la finanza dovrebbero favorire questo processo. Non sempre però abbiamo questa sensazione.

È un dato di fatto: le aziende hanno spesso bisogno di numeri per giustificare le loro scelte. Dietro alla parola sostenibile esiste però una componente di rispetto per l’umano e per la natura che non è immediatamente monetizzabile o quantificabile.

In alcuni casi è relativamente semplice. Un’azienda più efficiente dal punto di vista energetico avrà meno costi. Una fabbrica che utilizza meno materiali per produrre la stessa quantità di prodotto avrà una maggior resa e sarà meno esposta a variazioni del prezzo delle materie prime. Facile, banale. Ma se i vincoli ad emettere Co2 sono scarsi, perché preoccuparsi? Per quale motivo evitare di distruggere comunità indigene in paesi lontani, se questo mi permette di produrre di più? Certo, esiste un rischio boicottaggio, ma anche nell’era di internet non sempre tutto è comunicato o comunicabile. L’eccesso d’informazioni contrastanti crea disorientamento e dubbi. Proprio su questo si basano alcune strategie di controinformazione come ha mostrato una recente inchiesta della rivista tedesca Die Zeit sulla disinformazione legata al problema del riscaldamento globale. È spesso difficile valutare l’affidabilità delle informazioni ed è quindi facile restare in balia di un fastidioso rumore di fondo che tutto mescola e banalizza.

Il privato, consumatore o investitore che sia, ha grandi responsabilità. Deve chiedere informazioni su quello che compra, che utilizza o dove investe. Deve premiare le aziende che si sforzano di migliorare il loro modo di agire rendendolo più sostenibile. Senza questo contributo decisivo, sarà difficile fare grandi progressi, il mondo del business cambierà, ma troppo lentamente.

Ma anche le aziende hanno dei doveri. Il loro diritto a operare nasce dalla capacità di servire le persone e la Società dove agiscono. Inoltre da un approccio più responsabile possono anche trarre dei vantaggi, non si tratta solo di costi. Non vogliamo dilungarci troppo a questo proposito. Sono numerosi gli studi e le ricerche effettuate da università, Ong e organismi sovranazionali che trattano le politiche di Csr come un investimento. Questo sarà più facilmente sostenuto se ha un qualche ritorno in termini d’immagine, di miglior gradimento del prodotto, di motivazione dei dipendenti, di maggior stabilità delle vendite, di recupero di efficienza produttiva o altro. La maggior parte di queste analisi giunge a conclusioni positive o almeno neutrali, di solito i ritorni ci sono. Ma se anche gli investimenti in Csr fossero un gioco a somma zero, dove i vantaggi ottenuti e i costi si annullano, quale è il rischio? Forse non si otterrà un grande vantaggio come impresa, ma sarà creato valore per altri stakeholders, che sono importanti per definizione. In un momento come l’attuale in cui il mondo aziendale tende a perdere credibilità ed è quasi visto come qualcosa di estraneo alla Società, come qualcosa che sta perdendo contatto con la realtà e con le difficoltà vissute dai privati, l’importanza di questo aspetto è destinata a crescere. Il non agire inoltre comporta anche’esso dei rischi. Questi possono essere relativi, nei confronti della concorrenza, ma soprattutto assoluti, legati alla possibilità di contribuire a peggiorare le condizioni in cui, come azienda, opero.

In quest’ottica, quale può essere il ruolo di una banca? Di un istituto finanziario? In fin dei conti un’azienda del credito ha un basso impatto ambientale. Inquina poco, consuma pochi materiali, poche risorse. Il discorso sull’efficienza energetica ha un peso relativamente basso nei conti di un istituto di credito. Eppure il peso della finanza è molto rilevante come abbiamo visto, in negativo, nel 2008. Il ruolo che le banche hanno a livello di sistema è talmente importante, che pensiamo non possano sottrarsi a queste responsabilità. Anche solo per questo devono essere parte attiva nel cambiamento. Ok, direte voi, ma questi non sono numeri, non è null’altro che un esercizio di etica applicata al business. Eppure le banche, più di ogni altro settore, sono esposte all’economia nel suo insieme. Se questa prospera, il settore finanziario ne approfitta. Se l’economia si contrae, entra in sofferenza. Sappiamo ormai bene che il sistema aziendale crea danni ambientali per migliaia di miliardi di dollari e questo, in qualche modo, non favorisce lo sviluppo. In qualche modo queste esternalità negative abbassano le possibilità di crescita di tutta l’economia. Anche come investitore, quanto è sensato investire in un’azienda che scarica dei costi sulla collettività? Magari ci sarà un guadagno, ma alla fine la creazione di esternalità riduce il potenziale di guadagno degli altri investimenti. Esiste quindi un chiaro interesse ad avere un mondo aziendale capace di internalizzare i costi e quindi di gestirli meglio, capace di dotarsi di regole di gestione chiare e trasparenti. Questo concetto è quello che gli anglosassoni chiamano principio di Universal Ownership. Non è immediatamente traducibile in numeri, ma fa capire come anche un investitore “egoista”, ma con interessi diffusi, ha un interesse a preservare il sistema. Anzi, forse proprio perché vuole continuare ad essere egoista ha la necessità di mantenere in salute l’economia.

Se fino a qualche hanno fa era difficile capire quali erano le reali colpe o meriti di un’impresa, oggi sono molte le informazioni disponibili. È possibile capire quali politiche sono state adottate, quanto è investito in tutela dell’ambiente e qual è l’impatto sulla collettività e sui dipendenti. È possibile misurare le emissioni, l’efficienza produttiva e gli scarti. Non tutti questi dati sono immediatamente riconducibili a numeri, costi e ricavi, ma rappresentano un segnale. Indicano una direzione verso la quale l’azienda si muove, una tensione verso una maggior sostenibilità. Queste informazioni non devono essere ignorate. E se da un lato è vero che il consumatore/investitore/privato ha un ruolo importante, dall’altro la finanza non può stare ad attendere che il cliente arrivi e chieda più sostenibilità, etica o responsabilità negli investimenti. Non ci si può più nascondere. Vale anche per noi. Commetteremo errori, guarderemo indicatori sbagliati o che scopriremo poi essere meno rilevanti di altri. Ci sfuggiranno informazioni importanti. Saremo troppo indulgenti verso aziende che non lo meritano e troppo severi verso altre, ma da qualche parte occorre cominciare.

 

È una specie di ritorno alle origini, un back to basic, una riscoperta del senso dell’investimento. Si investe per guadagnare, per preservare o incrementare la ricchezza, per essere più sicuri e tranquilli. Si investe, insomma, per poter star meglio, ma non ci si preoccupa se gli investimenti effettuati sono compatibili con questo desiderio o no. Un tempo l’economia, come citava l’incipit di ETicaNews, funzionava con delle strette di mano, con dei rapporti inter-personali. Tornare alle origini vuol anche dire, semplicemente, riprendere ad utilizzare tutte le informazioni che sono disponibili, anche quelle più umane o sociali, per analizzare gli investimenti.

Da qui nasce il primo “compito” della finanza, quello dell’integrazione. Occorre integrare fattori extra-finanziari nelle scelte. Gli inglesi chiamano questo tipo di analisi “Esg” dalle parole environment, social e governance. Fondamentalmente queste tre lettere riassumono quello che abbiamo detto prima. Gli investimenti, i prestiti, i titoli raccomandati devono essere valutati anche in base a criteri ambientali, sociali e di governance. Questo perché l’insieme di questi fattori fornisce ulteriori informazioni sulle aziende, sui rischi cui sono esposte e sulle opportunità future. Ad oggi non è dimostrato con certezza che l’aggiunta di questi criteri migliori la performance degli investimenti però, come sopra, quello che emerge è che utilizzare questo tipo di analisi non peggiora il risultato. In fin dei conti aziende più efficienti dal punto di vista energetico hanno costi più bassi. Società con una buona governance sono meno esposte a rischi di frode, imprese che hanno una forza lavoro motivata hanno più possibilità di prosperare in futuro. In fondo la “rivoluzione” è semplice; bisogna invertire l’onere della prova. Non considerare questi fattori nelle scelte d’investimento vuol dire pensare che l’efficienza energetica, il consumo di risorse, le regole di governance, l’attenzione all’ambiente o alla Società, non abbiano rilevanza finanziaria. Se è così, per favore dimostratemelo.

Il secondo ruolo o compito potremmo chiamarlo con un po’ di enfasi, “culturale”, di creazione di cultura e d’informazione. Le banche hanno un ruolo centrale nel sistema economico, sono al centro di quasi ogni transazione o decisione. È difficile trovare qualcuno che non ha contatti col sistema finanziario, anche solamente per un conto corrente. Allora le banche sono in posizione decisiva per poter trasmettere e creare “cultura”. Non sono una televisione o un giornale, ma sono un importante cardine tra privati ed imprese. Possono e devono fornire le informazioni sulle scelte a disposizione, far sapere ai clienti cosa effettivamente stanno comprando e quali sono le conseguenze del loro investire. Essere trasparenti. Allo stesso tempo devono sospingere esse stesse ed il sistema economico a progredire, ad imboccare strade più responsabili. Per il bene loro, della Società e delle aziende stesse. Perché se il sistema crolla, nessuno ci guadagna.

Questo ruolo che noi vorremmo vedere ricoprire dalle banche è forse il più importante. Il potere del capitale è enorme, bisogna sfruttarlo. Occorre valutare non solo i numeri ottenuti, ma come sono stati ottenuti. Mostrare che considerazioni di sostenibilità sono tasselli importanti nelle decisioni d’investimento significa costringere il mondo economico a farsi carico di questi aspetti. È fondamentale per ottenere dei cambiamenti; alla fine questa è probabilmente la leva più importante che abbiamo a disposizione.

Strettamente legato ai precedenti, esiste l’aspetto legato all’utilizzo dei diritti di voto, dell’engagement. Osserviamo – e questo vale per privati e aziende – come l’investimento finanziario spersonalizzi, tolga responsabilità. Bisogna invece capire che investire in un’azienda significa esserne proprietari. Allora qual è il meccanismo per cui una persona che mai farebbe del male a qualcuno, diventa proprietario di aziende che mettono in pratica comportamenti scorretti e talvolta addirittura criminali? Bisogna imparare a utilizzare i diritti di voto. Come proprietario ho il dovere di contribuire ad indirizzare le scelte e le politiche. È la chiusura del cerchio con cui rafforzo, comunico e metto in pratica le analisi che sono state fatte in precedenza.

Noi crediamo che il valore dell’etica, della responsabilità stia aumentando e sia destinato a progredire ulteriormente. Abbiamo l’impressione che la Società stia infilandosi in un imbuto; più si entra più cresce la consapevolezza dell’esistenza dei limiti. Questa “scoperta” comporterà un progressivo aumento dei vincoli che saranno imposti alle imprese. Sarà importante anche agire velocemente. Se la finanza inizia a muoversi in questa direzione, la forza con cui procederà il cambiamento aumenterà significativamente. Più energico questo sarà, maggiore sarà il beneficio per tutti, banche comprese.

 

A cura di ETicaNews