18 settembre 2013 – «Il report di sostenibilità significa soprattutto due cose: leggibilità e comparabilità». A dirlo è Paolo Baroli, di Creval-capogruppo del Gruppo bancario Credito Valtellinese, dove è csr manager all’interno del servizio Corporate identity, Qualità e Sostenibilità. È lui che, a parte una parentesi di sei anni a Bruxelles come rappresentante dell’Istituto Centrale delle Banche Popolari Italiane, ha contribuito a far nascere e crescere il bilancio sociale di Creval, prima banca in Italia ad averlo pubblicato nel 1995. Nel 2009 il documento, che da qualche anno ha assunto la denominazione “rapporto” sociale a evidenziarne la natura di rendicontazione, è stato anche premiato con l’Oscar di bilancio di Ferpi.

Con Baroli proseguiamo l’analisi dei pro e contro di G4, le nuove linee guida del Gri-Global Reporting Initiative, di cui la settimana scorsa avevamo discusso con Marcello Colla di Etica Sgr.

Come valuta G4 lungo i due assi che ha indicato?

Leggibilità e comparabilità non necessariamente aumentano con l’utilizzo di standard. Neanche il G4, che peraltro è apprezzabile. Non si tratta di un tema di standard o di compliance, ma di comunicazione. Che, con riferimento al report di sostenibilità, vuol dire “doing more, with less”. Il possibile pericolo del G4, invece, è che si vada verso il “doing more, with more”.

Se l’obiettivo ultimo è rendere più snella ed efficace la comunicazione, 94 pagine di Reporting principles, 266 pagine di Implementation manual: non sembrano eccessivamente corposi?

Tendenzialmente sì, anche se quelle pagine sono ampiamente riassumibili. Ma attendiamo la prova dei fatti. Quello di cui occorre soprattutto rendersi conto è che le aziende hanno i loro limiti e i loro vincoli. E che di fronte a una imponente mole di informazioni richieste, la prima reazione delle organizzazioni, tendenzialmente, è di un certo spavento. Nel nostro caso, dato che il report di sostenibilità è sottoposto alla qualificata revisione di Kpmg, ci attendiamo che anche i nostri revisori ci accompagnino in questo cammino, facilitandoci la lettura e, come dire, la “digestione” di G4.

G4 sarà obbligatorio, per chi vuole restare “in accordance” con il Gri, da dopo il 2015. Che tipo di lavoro si può già iniziare a fare sulle nuove guideline?

Oltre, ribadisco, a “digerirle”, si può effettuare una gap analysis. Per identificare quali sforzi saranno richiesti per essere G4 compliant. Per verificare, cioè, se siamo ancora lontani o se, invece, potremmo essere in grado di produrre il primo report G4 compliant già il prossimo anno.

Com’è G4 dal punto di vista di una banca, che è un’azienda con caratteristiche molto particolari?

Parto da una considerazione generale: G4 è senz’altro un progresso rispetto a G3. Apprezzo molto il loro lavoro sugli indicatori, perché è nella misura in cui tu quantifichi che puoi operare confronti. E anche la sottolineatura dell’importanza del coinvolgimento degli stakeholder, su cui in Gruppo Creval crediamo molto e su cui la dottrina della sostenibilità si interroga da anni, anche se è un tema delicato e difficile: parecchie volte, infatti, accade che non vi sia un vero coinvolgimento degli stakeholder in senso pro-attivo e bi-direzionale. Se guardo a G4 dal punto di vista di una banca, invece, dico che già la banca è sottoposta alla vigilanza di Bankitalia; se è quotata, anche al controllo della Consob; che il tema dei rischi diretti e indiretti in banca è, ovviamente, tutt’altro che sconosciuto. Voglio dire che, anche se probabilmente arriverà anche per G4 (come per la precedente versione del Gri, ndr) il supplemento specifico per il settore finanziario, l’approccio del Gri sembra in qualche caso rivolgersi a un tipo di impresa indifferenziato. Poco attento alla specificità d’impresa, insomma.

Cosa intende esattamente?

Sul tema degli impatti ambientali diretti, ad esempio, G4 è sovra-proporzionato rispetto all’attività di qualunque banca, che ha un livello di emissioni, per dire, non comparabile a quello di un’azienda industriale. Altro esempio: se un fornitore sottoscrive la nostra Carta dei valori, che a noi evidentemente importa molto sia conosciuta e diffusa, come banca quali strumenti abbiamo, realisticamente, per garantire che la promessa del fornitore sia mantenuta? Nessuno, purtroppo. La nostra attività economica caratteristica è raccogliere risparmio e concedere credito: è principalmente su questo che possiamo e dobbiamo rendicontare.

Al prossimo Forum Csr Abi di fine ottobre a Roma è prevista una sessione su G4, dove lei tra l’altro interverrà. Su cosa ci si focalizzerà?

Si approfondiranno i contenuti e la metodologia di G4, insieme al know-how che è richiesto ai rendicontatori della sostenibilità per essere in grado di utilizzare G4. La ritengo un’occasione molto utile per soddisfare la prima necessità di questo standard: essere conosciuto. In quest’ambito c’è un lavoro in corso anche in sede Abi, dove come Creval partecipiamo al gruppo di lavoro sulla sostenibilità, per dare un’omogeneità interpretativa ai singoli indicatori. Perché se non si chiamano le stesse cose con lo stesso nome, la comparabilità si perde.

A suo avviso il bilancio sociale potrebbe o dovrebbe diventare prima o poi obbligatorio anche in Italia, come già accade in altri Paesi, ad esempio per le grandi aziende o quelle quotate in Borsa?

Personalmente non sono favorevole all’obbligatorietà del rapporto sociale. Ma sono favorevole al report integrato, che vedo destinato a diventare quello che oggi è il bilancio civilistico, cioè un documento cogente per legge. Sempre sulla base, però, di standard chiari e snelli. Spesso, invece, in banca ma non solo, notiamo un’onerosità clamorosa di note integrative e interpretative, il cui valore aggiunto in termini di comunicazione troppe volte sfugge.

Il bilancio sociale è di solito uno dei principali compiti del csr manager: questo ruolo è ormai riconosciuto, dentro e fuori le aziende, o deve ancora affermarsi?

Posso dire che in Creval è un ruolo evidenziato e riconosciuto, che risponde direttamente al vice-direttore generale della banca. E coincide col responsabile della corporate identity: siamo una banca popolare e la sostenibilità è parte integrante della nostra cultura d’impresa. Se si va a vedere il nostro Statuto, del 1908, già nell’articolo 2, che esprime la mission della banca, vi sono dei nuclei di sostenibilità. In ogni caso il riconoscimento del ruolo del csr manager dipende molto dalla cultura aziendale: fa grande differenza se è una cultura della condivisione, che ritiene non secondaria la dimensione sociale e ambientale, o se è un’azienda molto focalizzata sullo shareholder value. In questo secondo caso, non è così facile che il csr manager si distingua. Però è importante anche l’interpretazione che la persona dà a questo ruolo, la sua capacità di dialogare, rendersi credibile e autorevole: la sostenibilità non è un prodotto da vendere ma una cultura da diffondere, soprattutto all’interno dell’azienda.

Andrea Di Turi

 

A cura di ETicaNews