11 aprile 2013 – «L’Italia deve solo trovare il coraggio di farlo»: che ci sia un gap tra il nostro e gli altri Paesi con cui solitamente ci confrontiamo, in termini di diffusione delle pratiche di engagement, è un fatto. Ma l’opinione di Simonetta Bono di Vigeo Italia, branch italiana di Vigeo, una delle più importanti agenzie di rating etico a livello europeo e mondiale, è che fra le cause di questa situazione vi sia una sorta di basso livello di auto-stima. «L’Italia – precisa – ha tutto per fare engagement, anche se è vero che è indietro su numerosi aspetti legati allo Sri. Ma ci stiamo lentamente adeguando. E non possiamo restare estranei a questo fenomeno, perché l’engagement è molto efficace».

Il gap è davvero così ampio?

A livello europeo l’engagement ormai è molto diffuso, è fra gli approcci più seguiti ad esempio dai fondi pensione. Mentre in Italia lo vediamo più come una prospettiva promettente per effettuare investimenti socialmente responsabili. Il fatto è che da noi gli investitori istituzionali probabilmente non ritengono di avere ancora le dimensioni adeguate per affrontare certi temi, ma penso sia una percezione errata, anche perché per l’impresa a cui ci si rivolge attraverso l’engagement il fattore dimensionale non è dirimente».

In Europa è tanto diffuso perché funziona?

Sì, ha un’efficacia maggiore di altri approcci Sri, come quello basato sui benchmark etici o sullo screening negativo o positivo. Perché se non fai engagement, non puoi influire sulle prassi operative di un’impresa. Di solito la presa di contatto con l’impresa avviene via lettera: è l’occasione per chiedere un chiarimento, informazioni. Dobbiamo infatti intendere l’engagement come un cantiere aperto, in cui i lavori che iniziano finiranno quando si sarà deciso che l’opera è soddisfacente.

Quando, di solito, si invia una lettera per aprire un’iniziativa di engagement?

Quando nella gestione d’impresa c’è qualcosa, riguardo naturalmente a istanze Esg (ambientali, sociali e di governance, ndr), che come investitore non si condivide, non si capisce, non si accetta. In quel caso, invece di vendere il titolo e lasciare l’impresa al suo destino, tieni il titolo e lo usi per creare una relazione. Il cui percorso può arrivare all’azionariato attivo, che è la forma più strutturata ma non necessariamente conflittuale di engagement, dove da parte degli azionisti si chiede all’azienda un cambiamento effettivo o una decisione specifica, in un preciso momento e su un determinato punto. E dove quindi si arriva a proporre una risoluzione all’ordine del giorno nell’assemblea degli azionisti e si vota, facendo cioè proxy voting, solitamente potendo attirare anche l’attenzione dei media. Tra l’altro per fare azionariato attivo occorre rispettare delle soglie di partecipazione, che possono variare da Paese a Paese e anche da un’assemblea all’altra. Mentre per scrivere una lettera si può anche non essere un azionista ma dichiarare che si intende diventarlo, in teoria anche prima di una Ipo (Initial public offering, ndr), se per esempio si intende partecipare al collocamento del titolo. Per cui la lettera è alla portata di tutti e permette di giocare la partita su un livello più privato, senza darle particolare visibilità.

Ma queste lettere hanno successo o le imprese, come dire, le “rimbalzano”?

La lettera è una richiesta di informazioni. Spesso gli sforzi delle imprese in campo sociale e ambientale sono sottostimati soltanto perché le imprese non li comunicano. Per cui la lettera non si invia solo in caso di eventi eccezionali, ma anche per capire situazioni che rientrano nella normale gestione aziendale, come può essere il rispetto o meno delle quote-rosa nel Cda, o aspetti apparentemente lontani che però riguardano la sua catena di fornitura, come può essere il rispetto dei diritti umani in un Paese in via di sviluppo.

C’è speranza, allora, che anche in Italia impariamo a sfruttare al meglio queste strategie?

In Vigeo siamo molto attivi sull’engagement, specie con clienti europei. Ma stiamo iniziando un percorso anche con clienti italiani, prevalentemente fondi pensione. L’idea è di arrivare a creare un pool di investitori italiani che si focalizzino sulle stesse tematiche, che abbiano così una forza d’urto maggiore, in termini di asset e di numero di investitori, per poter inviare lettere finalizzate all’engagement.

Quando il pool potrebbe diventare realtà?

Forse già nel 2014. C’è da tener conto che l’engagement è un processo davvero molto lungo. Ma è necessario che sia così, perché va metabolizzato. L’engagement richiede che si faccia cultura su tutti gli aspetti, per cui l’investitore deve essere consapevole delle informazioni che va a chiedere. E la questione su cui si interpella l’azienda deve essere dimostrabile, tracciabile, supportata da fonti ufficiali pubbliche. Non si può fare engagement sui rumours. Si fa engagement su fatti provati.

Andrea Di Turi @andytuit

 

A cura di ETicaNews