14 marzo 2013 – «Bisognerebbe iniziare a parlarne di più»: questo è uno dei (tanti) motivi per cui in Italia l’azionariato attivo o engagement, che sta preparando la nuova stagione, è ancora una questione per pochi. A dirlo è Marinetta Intonti, professore associato di Economia degli Intermediari finanziari presso l’Università di Bari Aldo Moro (la si può trovare su Twitter all’account @intontimari), che negli ultimi anni ha svolto approfondite ricerche, riguardo al panorama italiano, europeo e internazionale, sulla finanza etica e in particolare sulle politiche di engagement. Di cui è uno dei massimi esperti in Italia. Politiche «messe in atto da investitori etici come fondi Sri, fondi pensione e investitori istituzionali – spiega – per coinvolgere e sensibilizzare le imprese partecipate sui tematiche di responsabilità sociale. E spingerle verso comportamenti sempre più virtuosi in almeno tre ambiti: sociale, ambientale e di governance, nel rispetto dei parametri Esg (environmental, social and governance, ndr)».

Che differenze esistono tra politiche di “soft” e “hard” engagement?

Le politiche di engagement si avvalgono di una serie di strumenti che possiamo definire di moral suasion. Quelli di soft engagement consistono in forme di dialogo con l’impresa target. Quelli di hard engagement si sostanziano nell’esercizio del diritto di voto in assemblea su temi Esg o nella promozione di apposite mozioni da parte di uno o più investitori. La differenza, quindi, è nell’intensità e nell’incisività degli strumenti.

Con che tempistiche questi strumenti possono essere utilizzati dagli investitori etici?

Il soft engagement può avvenire anche in una fase antecedente rispetto all’assemblea degli azionisti. Anzi, lo si potrebbe attivare in una fase antecedente rispetto anche allo stesso investimento che si ha intenzione di effettuare.

…una sorta di engagement preventivo?

Sì. Nel senso di effettuare una valutazione e intraprendere con l’impresa in cui si intende investire un dialogo che porti appunto all’investimento. Può essere un’alternativa rispetto a una politica di exit, cioè di disinvestimento o di eliminazione dall’universo investibile nel caso in cui l’impresa non risponda adeguatamente all’engagement. Come dire: se ascolti le mie istanze, allora posso pensare di investire il mio patrimonio nella tua azienda. Potrebbe essere un buon modo anche per ampliare l’universo investibile.

Che caratteristiche deve avere una politica di engagement per essere realmente efficace?

Intanto è necessario che vi sia un’adeguata preparazione e pianificazione delle attività da svolgere: vanno ben individuate le attività e le persone che devono seguirle e vanno attivati una serie di comportamenti che possano portare alla concretizzazione del risultato. Un altro accorgimento per essere efficaci è ampliare le tematiche trattate, che dovrebbero coprire un po’ tutti gli ambiti Esg e non solo la governance, che oggi è l’area su cui più si concentrano le attività di engagement: lo sottolinea anche Eurosif nelle sue ultime linee guida, dicendo che occorre andare al di là della governance, e considerare anche tematiche sociali e ambientali, per essere pienamente compliance con una strategia di engagement. E, ancora, può essere opportuno utilizzare almeno inizialmente un approccio collaborativo, in modo che l’azione di engagement venga percepita come un contributo positivo a favore dell’impresa, e alla fine anche della collettività, e non negativamente. Cosa che invece può avvenire soprattutto in Italia, dove le imprese sono abbastanza chiuse verso questo tipo di interventi. L’approccio può diventare via via più incisivo, poi, in caso di resistenza da parte dell’impresa.

Quando si arriva in assemblea, di solito quale atteggiamento paga di più: di dialogo o più severo?

Dipende. Anche dallo stadio a cui è giunta la trattativa. Se sono tanti anni che si va nell’assemblea di una società in modo collaborativo, ma l’impresa non risponde, si può anche valutare di prendere un atteggiamento un po’ più duro: astenersi, dissentire dalle decisioni, escludere dall’universo investibile, disinvestire. O fare anche del dissenso pubblico, che è una sorta di sanzione sociale e comporta un rischio reputazionale che per le imprese è comunque rilevante. Ma c’è una cosa che ritengo fondamentale fare in assemblea…

Quale?

Attivare delle coalizioni. Cosa che un po’ manca in Italia, dove magari ci sono interventi di singoli investitori, pur validi e con una loro efficacia. Il fatto, invece, di creare coalizioni, come accade negli Stati Uniti ma anche in altri Paesi, potrebbe portare a un esito positivo anche più importante. A mio avviso davvero in questo caso l’unione fa la forza: in una ricerca a cui avevo collaborato qualche anno fa, insieme al professor Antonio dell’Atti e ad Antonella Iannuzzi, dove avevamo considerato oltre 300 fondi etici europei, era emerso che in quasi il 40% dei casi l’impresa target delle pratiche di engagement viene scelta sulla base dell’entità della partecipazione all’iniziativa stessa di engagement. Vuol dire che il fondo etico si rende conto che una buona partecipazione è necessaria per essere incisivi e la si può ottenere unendosi con altri investitori che hanno gli stessi obiettivi, appunto attraverso una coalizione.

Quali altri gap l’engagement deve ancora superare in Italia?

L’assenza di grandi coalizioni di investitori Sri, come detto, è sicuramente uno dei principali. Da noi, inoltre, l’azionariato attivo è molto meno diffuso. Un problema è che i fondi Sri in Italia sono ancora eccessivamente limitati numericamente. E c’è poca presenza di fondi pensione che investono con criteri etici, che è però un ostacolo che si potrebbe superare. Le imprese italiane, poi, come recenti ricerche hanno mostrato, non sono particolarmente appetibili da parte degli investitori Sri esteri: anche questo incide. Servirebbe pure una maggiore chiarezza sulle modalità con cui fare engagement. E manca un po’ l’informazione su recenti modifiche normative che favoriscono l’engagement: anche per standardizzare le forme di engagement, sarebbe opportuno che se ne parlasse un po’ di più.

Andrea Di Turi @andytuit

 

A cura di ETicaNews