6 marzo 2013 – Resistente alla crisi, produttrice di benessere sociale, occupazione e reddito, ma snobbata dalla politica. Quale futuro ha l’impresa sociale? EticaNews lo ha chiesto a uno dei massimi esperti in materia, Carlo Borzaga, professore ordinario di Politica Economica presso la Facoltà di Economia dell’università di Trento, presidente di Euricse (European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises), membro fondatore e consigliere del network Emes (The Emergence of Social Enterprise in Europe); presidente di Iris Network (Istituti di Ricerca sull’Impresa Sociale), direttore scientifico delle rivista “Impresa Sociale”, membro del Comitato Editoriale di diverse riviste tra cui Economia e Lavoro, Revue des études coopératives mutualistes et associatives, Social Enterprise Journal.

Che cosa è successo alle imprese sociali con la crisi?

Innanzitutto bisogna dire che in Italia l’impresa sociale era ed è rimasta essenzialmente cooperazione sociale. I dati del Censis indicano che in questi anni la cooperazione sociale ha retto, nonostante il calo delle risorse pubbliche. Tra 2008 e 2011 l’occupazione è salita del 18%, il che significa che nonostante il calo delle risorse pubbliche per il sostegno dei servizi le coop sono riuscite a reggere.

Come?

Spesso rinunciando a fare utili e spesso andando in perdita, ma questo è in linea con l’impresa sociale, che per sua natura non tutela il patrimonio ma i servizi. Ci sono stati anche tagli sui costi, risparmi e fenomeni di aggregazione. L’impressione è che ci sia una tendenza all’aggregazione delle piccole cooperative per contenere i costi e sfruttare le economie di scala.

Con la crisi del pubblico, le imprese sociali sono destinate a diventare un sostituto del welfare?

La chiamerei piuttosto un’offerta aggiuntiva all’offerta pubblica. Da parte delle imprese sociali c’è la propensione a una maggiore apertura al mercato. Pur mantenendo le vecchie attività, le imprese sociali ne stanno attivando di nuove, più orientate verso la domanda privata.

Se non ci sono erogazioni pubbliche l’impresa sociale può sopravvivere?

Le erogazioni pubbliche sono corrispettivi a fronte di produzione di servizi che gli enti locali ritengono indispensabili. Oggi l’80% del finanziamento viene da lì. Senza intervento pubblico molte di queste imprese sociali non potranno sopravvivere, perché gli utenti non sono in grado di pagare i servizi assistenziali. Ma ci sono anche imprese sociali la cui sopravvivenza non dipende dalle risorse pubbliche ma dalla domanda privata.

Quali nuovi modelli di erogazione da parte delle fondazioni?

Non credo che le fondazioni possano finanziare la gestione, che richiede un impegno stabile e continuativo. Ma credo che possano finanziare le start up e l’innovazione, che il pubblico non finanzia più. Le fondazioni da questo punto di vista sono importanti, perché da loro può provenire ad esempio il finanziamento del capitale di rischio.

Servono capitali privati?

Per fare un’impresa sociale non ci vogliono molti soldi, basta un minimo di capitale, perché si tratta di imprese ad alta densità di manodopera. Serve certamente un certo capitale circolante per anticipare gli stipendi e per alcuni investimenti, ma spesso non si tratta di grandi cifre. Le imprese sociali, inoltre, si auto-patrimonializzano attraverso le riserve degli utili non distribuiti. Spesso non c’è bisogno di soci finanziatori.

Si andrà verso l’auto-sostenibilità dei progetti di social business?

Posto che io non vedo differenze tra l’impresa sociale e il social business, l’impresa sociale può essere sostenibile, ma per farlo deve operare in settori dove c’è una domanda pagante, creando attività che le famiglie o la Pubblica amministrazione sono in grado di pagare e desiderano acquistare. Certo, anche le normative potrebbero favorire l’impresa sociale. Penso al Regno Unito, dove una legge impone agli enti locali di assegnare alle imprese sociali immobili non utilizzati, anche cambiandone la destinazione d’uso, se il progetto è finalizzato alla produzione di servizi socialmente utili.

Bisogna cambiare la legge?

Un governo ragionevole dichiarerebbe l’impresa sociale una Onluss di diritto. Oggi, invece, l’impresa sociale non cooperativa sostiene costi senza avere alcun beneficio fiscale neppure sugli utili non ridistribuiti.

Ma sarebbe utile remunerare il capitale iniziale? E’ immaginabile un rendimento?

La legge dice che non si può remunerare il capitale che genera diritto di proprietà, ma si possono remunerare altre forme di finanziamento, come i prestiti dei soci. Per quanto riguarda gli utili, io tornerei alla legge Basevi, che per le coop prevedeva la possibilità di remunerare in modo limitato il capitale (anche quello proprietario) fino al 2% oltre il rendimento del buoni postali (in pratica, un tetto per evitare che ci siano speculazioni), ma impedisce di distribuire tra i soci il patrimonio in caso di vendita o di trasformazione dell’impresa.

Cambiano le prospettive per l’impresa sociale dopo questo voto politico?

I partiti e la politica in generale finora hanno totalmente snobbato questo mondo e dal programma del Movimento 5 Stelle non emerge una linea precisa. Nessun partito ha capito niente di questo mondo, un pezzo d’Italia che sta sostenendo il benessere di migliaia di persone, e questa è una delle ragioni della crisi della politica. Eppure, per aiutare il Paese a uscire dalla crisi occorrerebbe sostenere e moltiplicare questo tipo di attività che rende meno di altre, ma che ha la capacità di creare reddito e occupazione.

Fausta Chiesa

 

A cura di ETicaNews