27 febbraio 2013 – Il nodo da sciogliere, per lo sviluppo di un sistema capace di alimentare iniziative social, sta tra domanda e offerta di capitali. E questo nodo risiede (anche) nel cuore del sistema finanziario: la banca. O meglio: nel private banking. Pioniere del fund raising, Maurizio Carrara, oggi Presidente di Unicredit Foundation, ha fatto della ricerca di risorse economiche da destinare a progetti sociali la sua missione. Fondatore nel 1985 del Cesvi (oggi Fondazione Cesvi onlus), e dal 2005 al 2010 Consigliere delegato della Società Editoriale Vita, editrice del settimanale Vita non profit magazine, Maurizio Carrara non ha solo guidato spesso la macchina operativa della raccolta fondi, ma anche cercato di creare un contesto favorevole per incrementare le donazioni da parte di privati. Come nel caso della promozione dell’iniziativa per favorire le deduzioni fiscali delle donazioni, nota con il nome “+ Dai – Versi” trasformata in legge nel 2005. Da allora Carrara si è spinto oltre, cercando di far incontrare domanda e offerta di risorse economiche, a beneficio di iniziative del terzo settore, e portando il mondo del profit e quello del non profit su un terreno comune. Chiamato a ricoprire l’incarico di presidente di Unicredit Foundation, Carrara si è infatti fin da subito confrontato con la Divisione del Private banking del Gruppo guidata da Dario Prunotto. E proprio dall’incontro delle due anime della Banca, quella dedicata al conseguimento di finalità di business e quella rivolta alla realizzazione di iniziative di carattere sociale, ha presso avvio, sul finire dello scorso anno, il “philantropy advisory”, il servizio di consulenza per la gestione del patrimonio destinato a fini filantropici. Un passaggio chiave, reso possibile dalla natura corporate della Unicredit Foundation, che ridisegna il rapporto banca-comunità finora ancorato ai modelli classici delle fondazioni bancarie.

In questo momento c’è un’offerta di capitali pronti a sostenere iniziative etiche?

Sì, e tale offerta è più abbondante di quanto comunemente si creda.

Significa forse che in Italia c’è un problema di connessione tra domanda e offerta?

Sì, in parte questo problema c’è. Bisogna tener conto inoltre dell’incremento della domanda di risorse dovuto a due fattori. Con il protrarsi della crisi economica vi è stato un calo di donazioni notevole. L’Istituto Italiano delle Donazione ha rilevato tra il 2010 e il 2011 che il 37% delle organizzazioni non profit ha subito un peggioramento della raccolta fondi da privati. Negli ultimi anni questa tendenza si sta consolidando. Spesso l’importo medio della donazione da parte del privato è estremamente contenuto e può aggirarsi intorno ai 20 euro. Dall’altra parte la crisi sta indebolendo gli italiani su più fronti: sia su quello più direttamente economico, sia in termini di servizi fruibili. Mentre il mondo del non profit si trova costretto a tagliare alcuni servizi per mancanza di fondi, le istituzioni pubbliche riducono la loro presenza nel welfare. Queste due contingenze creano un bisogno di fondi ancora più elevato rispetto al recente passato. Sul versanti invece dei valori, cresce invece la consapevolezza circa l’esistenza di tali bisogni da parte di chi ha le risorse per poterli soddisfare. Stiamo parlando del filantropo, una persona che dispone di una grande patrimonio e che vorrebbe spesso poter “concretizzare” la sua volontà di donazione in maniera non assistenziale. Negli Stati Uniti la filantropia in quanto tale è un concetto che ha una storia alla spalle e per questo è ben preciso e determinato. Non è un caso se le grandi università o gli ospedali nordamericano sono enti no-profit.

In che cosa si distingue “tecnicamente” la filantropia dall’erogazione di fondi a scopo assistenziale?

Chi eroga il finanziamento vuole sapere esattamente come verranno utilizzate quelle risorse. Questo significa per i casi di erogazione di importo elevato dover redigere un vero e proprio business plan e monitorare costantemente i risultati ottenuti in termini di copertura di bisogni reali. Il concetto non è nuovo di per sé, ma sicuramente è inedito per l’Italia. In Europa vi sono dei modelli interessanti come quello sviluppato da UBS o Bnp Paribas. Come Unicredit Foundation stiamo cercando di “calare“ anche nella realtà italiana questo approccio e per farlo abbiamo unito le forze con il Servizio di Private Banking del Gruppo, che gestisce il patrimonio per conto di molti clienti con disponibilità finanziarie superiori al milione di euro. In Italia ci sono già società che fanno consulenza filantropica, ma nessuna è in grado di mettere in contatto la domanda e l’offerta all’interno dello stesso gruppo come Unicredit Foundation. Questo consente di ridurre le distanze tra chi possiede le risorse e chi può indicare le modalità per allocarle per conseguire uno scopo di tipo filantropico e non assistenziale. Noi andiamo a incrociare le competenze di Unicredit Foundation con la vicinanza al cliente che è tipo del gestore del private banking. Da parte del Private Banking vi è stata fin da subito un’elevata sensibilità nei confronti di questo tema: l’ascolto delle esigenze filantropiche espresso da alcuni clienti trova in Unicredit Foundation una risposta in termini di servizio.

Quale fattore potrà dare un impulso al decollo di iniziative filantropiche?

Il fattore chiave è la cultura. Occorre divulgare il tema ed educare ad un capitalismo diverso che ha bisogno anche della filantropia per funzionare in maniera efficiente. Questo capitalismo “buono” dovrebbe essere in grado di innescare un meccanismo virtuoso in base al quale le risorse economiche erogate possano essere impiegate in modo efficiente per scopi sociali. Un ospedale costruito attraverso una donazione filantropica, ad esempio, dovrà essere gestito alla stregua di un ospedale privato secondo criteri di efficienza e trasparenza. Occorre tuttavia investire per rilanciare una “cultura della filantropia” affinché si diffonda uno spirito di emulazione. Non dimentichiamo inoltre che tale cultura, per quanto lontana dal contesto attuale, non è del tutto estranea al patrimonio storico italiano: possiamo ad esempio già attingere a dei modelli di riferimento tra cui Ferdinando Bocconi, Adriano Olivetti e Mario Negri.

Si può immaginare una formazione per promotori e/o gestori su queste tematiche?

Per quanto riguarda la nostra esperienza diretta, sappiamo che alcuni gestori del private banking possono essere molto ricettivi rispetto a questi temi perché consentono loro di completare il servizio fornito al cliente. Tuttavia, la propensione alla filantropia da parte del cliente non deve essere in alcun modo sollecitata, bensì recepita dal gestore private. Il servizio di philantropy advisory di Unicredit ha già un numero significativo di clienti pronti ad avviare iniziative concrete. Il bacino di clienti interessati inoltre spesso richiede “come fare” a tradurre nel concreto un progetto che talvolta aveva già delineato nella sua mente. In pratica, a Unicredit Foundation viene richiesto come raggiungere tecnicamente certe finalità: vi è, ad esempio, grande interesse circa la valutazione dell’opportunità o meno di costituire un trust piuttosto che una fondazione o un’associazione no-profit.

In Europa il servizio esiste già. In Italia Unicredit è il primo gruppo bancario ad aver proposto questo servizio. Vi è forse un gap di volontà delle banche italiane oppure vi è un problema di conoscenza?

Come cittadino sarei ben felice se vi fossero altri servizi come il nostro perché i progetti finanziati andrebbero di fatto a beneficio di tutta la comunità. In secondo luogo, come “addetto ai lavori” ne sarei lieto perché per far decollare questo servizio occorre promuovere la cultura della filantropia. Più siamo in questo coro di voci, più profonda sarà la sensibilità verso questo tema, maggiore sarà la di domanda per i servizi di filantropy advisory e più importanti saranno le risorse che potranno essere raccolte. La motivazione fondamentale per questo ritardo italiano è costituita dal fatto che il supporto al terzo settore da parte del sistema bancario è sempre stato fornito attraverso le fondazioni bancarie attraverso erogazioni di risorse a soggetti esterni. Unicredit Foundation, invece, proprio in quanto “fondazione corporate” è in grado di “far incontrare” al proprio interno le esigenze di business tipiche della banca, con quelle prettamente sociali tipiche di una fondazione. L’Italia ha un bagaglio in termini di solidarietà molto elevata ma mancano dei modelli innovativi di filantropia. Noi crediamo che l’emulazione possa costituire la leva fondamentale per modernizzare il sistema delle donazioni e far sì che le nuove generazioni possano adottare un approccio più pragmatico al tema del finanziamento di progetti di natura sociale.

Quale valore attribuite al social business?

La Fondazione ha deciso di valorizzare il ruolo dell’impresa sociale in quanto soggetto più adatto, rispetto ad altri, a innescare uno sviluppo socio-economico maggiormente sostenibile per le comunità locali. La componente imprenditoriale dell’economia sociale possiede, inoltre, gli strumenti per dialogare in maniera più efficace con il mondo for profit e mutuare da questo gli skill e le tecniche gestionali che sono alla base del proprio funzionamento organizzativo.

Rosaria Barrile

 

A cura di ETicaNews