23 luglio 2013 – Greenpeace inciampa in tribunale sul logo di Enel. Dopo l’analisi di varie case-history di successo della ong verde, è interessante approfondire i risvolti di una crisi arrivata sulle pagine dei giornali proprio in questi giorni: la campagna contro Enel, che rischia di trasformarsi in un pericoloso boomerang per il gigante dell’attivismo ambientalista, creando anche uno scomodo precedente per chiunque scenda in campo in campagne di comunicazione con lo scopo di mettere in discussione la brand reputation di grandi gruppi industriali. L’evoluzione della campagna contro Enel sembra negli ultimi giorni aver preso infatti una piega complessa e inaspettata, con una sentenza della Corte di appello di Milano che avrebbe inibito l’uso del logo Enel a Greenpeace, ribaltando precedenti decisioni dei giudici.

Lo scontro legale tra il gruppo elettrico e la ong continua ormai da anni, con accuse pesanti da entrambe le parti. In particolare, la sentenza di Milano riguarderebbe l’iniziativa di Greenpeace basata sullo slogan: “Enel Serial Killer del clima: con il carbone di Enel, un morto in più al giorno in Italia”, nell’ambito della quale Greenpeace ha accusato Enel di avere la responsabilità di centinaia di morti premature in Italia, nonché di danni – sanitari, ambientali, economici – stimabili oltre il miliardo e mezzo l’anno.

Nel corso del lungo duello, l’associazione ambientalista ha messo a segno diversi colpi significativi per contrastare le strategie di Enel, che prevedevano – e pare prevedano tutt’ora – un incremento della produzione di energia a carbone in Italia. Tra essi, uno studio commissionato all’istituto indipendente di ricerca olandese Somo, realizzato con la metodologia utilizzata dall’Agenzia Europea per l’Ambiente, che confermava l’allarme lanciato dall’Associazione, e una successiva ricerca di Carbon Market Data che pareva dare ragione a Greenpeace, classificando Enel come quarto emettitore europeo di anidride carbonica e primo assoluto in Italia.

Greenpeace ha realizzato iniziative non convenzionali di sicura efficacia, come le centomila “bollette sporche di carbone” nelle case degli italiani, per mano degli attivisti, per mostrare ai cittadini quanto realmente costa la produzione elettrica a carbone del principale gruppo energetico italiano: le finte bollette riportavano un estratto del report Somo, e chiedevano a Enel di dimezzare la produzione elettrica derivante da carbone da qui al 2020, e di portarla a zero al 2030, investendo contemporaneamente in modo più incisivo in fonti rinnovabili per compensare la perdita di produzione.

Greenpeace ha organizzato anche un singolare – ma assai ripreso dai mass-media – “assalto” non violento agli uffici Enel di viale Regina Margherita a Roma, sede della Direzione Generale del gruppo: gli attivisti dell’associazione si calarono dal tetto del palazzo per esporre uno striscione di oltre 70 metri quadrati con scritto ”Enel killer del clima, abbiamo le prove, FacciamolucesuEnel.org”, transennando poi l’ingresso dell’edificio per “marcare la scena del crimine” e consegnando ai vertici dell’azienda un simbolico “avviso di garanzia” in cui si “iscriveva Enel nel registro degli indagati”, ipotizzando il reato di “profitto indebito tramite danno sanitario e ambientale a persone ed ecosistemi”, e sottolineando anche come quattro dirigenti Enel fossero anche indagati – dalla vera Magistratura, in questo caso – per omicidio colposo e lesioni colpose in relazione agli impatti patologici che le emissioni di alcune centrali avrebbero avuto sulla popolazione dei territori interessati dalle emissioni.

Enel ha sempre replicato a questa intensa campagna di comunicazione critica di Greenpeace sottolineando come il 42% dell’energia elettrica prodotta dal gruppo fosse priva di qualunque tipo di emissioni, compresi i gas effetto serra, e come Enel fosse già oggi in percentuale tra i maggiori produttori al mondo di energia elettrica da fonti rinnovabili, con il 36% della sua capacità produttiva costituita da impianti alimentati con la forza dell’acqua, del vento, del sole e del calore naturale della terra. Enel ha sottolineato inoltre come ogni giorno le centrali a carbone cinesi producano ciò che tutte le centrali a carbone italiane producono in un anno, e che attribuire a una singola centrale o a un singolo gruppo energetico la responsabilità di un problema globale di queste gigantesche dimensioni dimostrasse “miopia” da parte dell’associazione ambientalista, accusando anche Greenpeace di aver avviato la campagna con fini meramente strumentali.

Quale che sia la verità, a parte la scarsa capacità di Enel di prevedere scenari di crisi per certi versi assai prevedibili, ciò che preme sottolineare è come in realtà nel corso della battaglia – con la decisione d’Appello a Milano – il gruppo energetico sembra aver portato a casa un risultato importante in modo assai inatteso: la tutela del marchio registrato, imputando a Greenpeace l’abuso del logo aziendale Enel nella sua campagna di denuncia.

In sede di appello, il Tribunale di Milano pare – le motivazioni della sentenza non sono ancora pubbliche – aver inibito agli attivisti l’uso del logo Enel, in quanto la campagna di Greenpeace avrebbe avuto il torto di travalicare «i toni della contrapposizione ironica e parodistica» arrecando così un danno all’azienda.
 Greenpeace ha dichiarato in queste ore 
di ritenere di avere il diritto di informare i cittadini riguardo agli impatti sanitari, ambientali ed economici dell’uso del carbone di Enel: una questione che – secondo l’associazione – non ha niente di comico e che pertanto non dovrebbe essere vincolata ad alcuna ironia e parodia.
 «Quando conosceremo il dispositivo – ha dichiarato Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia – valuteremo se ricorrere in Cassazione, perché vietare l’utilizzo di un logo aziendale per un’attività di denuncia sociale è una limitazione inaccettabile del diritto di critica, e se Enel pensa di fermarci con questi mezzi si sbaglia di grosso».

Al di là dell’evolversi della vicenda dal punto di vista del merito, ciò che appare interessante è l’effetto “Al Capone” dell’offensiva di Enel: non potendo evidentemente battere Greenpeace sotto il profilo dei dati statistici circa l’inquinamento, né sotto il profilo dell’impatto sui mass-media e dell’appeal verso l’opinione pubblica, ha deciso di attaccarla nel campo della tutela del marchi registrati. Peraltro, a evidenziare quanto la partita sia delicata e metta in gioco per certi versi la sopravvivenza e funzionalità stessa dell’associazione ambientalista, occorre ricordare che nel corso dei diversi procedimenti Enel ha richiesto a Greenpeace un risarcimento per 1,6 milioni di euro, ancora pendente, per danni all’immagine.

Si apre un fronte nuovo nel campo delle campagne di sensibilizzazione per la difesa dei diritti civili e dell’ambiente, tale da creare un precedente assai pericoloso per tutte le ong, nonché una nuova ambiziosa sfida sia per Greenpeace sia per Enel, legale ma ancor più di comunicazione sui mass-media, specie quelli non convenzionali, stante il fatto che i cittadini non vedranno certamente di buon occhio l’atteggiamento massimalista e ostile di Enel, la quale tuttavia senza alcuna esitazione nel suo ultimo bilancio sociale – recentemente pubblicato, e nel quale assai curiosamente non accenna in alcun modo all’ingombrante contenzioso in corso con Greenpeace – si autodefinisce “Un’azienda al top nella Corporate Social Responsibility”.

La parola ora andrà alla Cassazione, nella speranza di non ricevere anche noi di ETicaNews una diffida da Enel per impropria citazione del nome dell’azienda…

Luca Poma

 

A cura di ETicaNews