23 luglio 2013 – Il 15 settembre del 1971, la prima barca di Greenpeace, con a bordo dodici volontari e tre giornalisti locali, salpava da Vancouver diretta in Alaska, nel tentativo di bloccare un test nucleare statunitense nella zona di Amchitka, un’isola nel Pacifico settentrionale al largo dell’Alaska, rifugio di lontre di mare, aquile testa bianca e falchi pellegrini. Il rischio di danni gravi e permanenti all’ecosistema era altissimo, e i primi pionieri di Greenpeace erano mossi dalla convinzione che – qualora con la propria imbarcazione fossero stati fisicamente presenti sul posto – l’esperimento non avrebbe avuto luogo. Bloccati anzitempo dalla Guardia Costiera, fallirono la missione, seppure il battage mediatico sul caso – di portata internazionale – servì per ottenere successivamente la classificazione della zona in “area naturale protetta”.

Ci riprovarono pochi mesi dopo dal lato opposto dell’oceano, nel tentativo di bloccare i test nucleari francesi a Mururoa. Proprio le immagini degli scontri con le fregate francesi che proteggevano le aree nuclearizzate del Pacifico e l’ostruzionismo non violento alle baleniere sono ancora vivissime nei miei ricordi di bambino. Tuttavia, non può essere passato inosservato a nessuno il cambiamento per nulla marginale che ha caratterizzato negli ultimi anni la comunicazione di quello che è senz’altro uno dei più noti gruppi ambientalisti del mondo.

La campagna contro i “rifiuti elettronici” ne è un esempio: lo smaltimento incontrollato e la presenza di sostanze pericolose come Pvc e ritardanti di fiamma bromurati all’interno della maggior parte delle schede elettroniche, destavano e continuano a destare preoccupazione, come anche – problema recentemente denunciato in un lungo articolo su Internazionale – il folle mercato del Coltan in Africa. Si tratta di un minerale, anzi di una combinazione di minerali – essenzialmente columbite e tantalite – vitale per la fabbricazione di tutti i gadget elettronici – cellulari in particolare, ma anche telecamere e computer portatili – in grado di ottimizzare al meglio il consumo della corrente elettrica nei chip di nuova generazione. Il suo valore è in forte ascesa, ma estrarlo non è affatto semplice, e comporta l’utilizzo di bambini, gli unici in grado di calarsi con efficacia nelle buche estrattive in cambio di una misera paga di 10 centesimi di dollaro al giorno. Il commercio di questo elemento è in gran parte illegale, nonché alla base dell’interminabile guerra che devasta la Repubblica Democratica del Congo e altri Stati africani confinanti. I ricchi proventi della vendita del minerale – sul mercato finale a 600 dollari al kg – vengono utilizzati per pagare i soldati e per acquistare armi: un commercio senza regole con inquietanti interazioni tra gruppi armati locali, organizzazioni criminali internazionali, e – sconcertante ma vero – multinazionali dell’elettronica sia occidentali sia asiatiche, le quali, interpellate sull’eticità di questo traffico che coinvolge i loro sub-fornitori, si trincerano – tutte, nessuna esclusa – dietro un granitico “no comment”.

Greenpeace è intervenuta in parte su queste importanti tematiche, pubblicando un rapporto sullo stato dell’elettronica verde ogni tre mesi, nel quale si mettono a confronto le più importanti aziende nel campo della telefonia e dell’elettronica in base alle loro dichiarazioni pubbliche in fatto di smaltimento dei rifiuti elettronici e di utilizzo di sostanze pericolose o illegali nei componenti elettronici. La mira ricadde presto su uno dei leader di mercato, Apple, che nonostante insistenti richieste non prese posizione con dichiarazioni pubbliche. Nacque così la campagna Green My Apple, che mirava a far prendere una posizione chiara ad Apple su questo tema e a instaurare un circolo virtuoso fra le varie aziende di settore che nel gigante di Cupertino vedono un chiaro riferimento: convinta Apple, con gli altri player sarebbe stato tutto più semplice. Greenpeace vinse la battaglia, e ottenne i risultati sperati con una dichiarazione di intenti pubblica da parte dell’allora ceo di Apple Steve Jobs che, sul sito ufficiale dell’azienda, lanciò il progetto “A Greener Apple”.

Un’altra campagna di successo fu quella contro Volkswagen. Greenpeace sosteneva che il gruppo tedesco – il più grande produttore di automobili in Europa – da un lato si presentasse come “il produttore più eco-Friendly al mondo”, dall’altro si dimostrasse estremamente lento nel ridurre i consumi di carburante del proprio parco veicoli e, benché avesse sviluppato le tecnologie necessarie a produrre automobili altamente efficienti nei consumi, per scelta non le commercializzasse su larga scala. Secondo gli analisti di Greenpeace, Volkswagen sarebbe stata l’azienda con il maggior impatto ambientale nel continente rispetto a ogni altra del mercato automobilistico, avrebbe avuto una lunga tradizione nel distogliere l’attenzione dalle sue scarse performance ambientali attraverso lo sviluppo di prototipi di auto super efficienti che, però, non entravano mai in produzione per il grande mercato, e – soprattutto, a conferma della scarsa autenticità del gruppo – sarebbe stata una delle principali forze in campo nella campagna contro l’introduzione in Europa di standard comunitari sull’efficienza ambientale degli autoveicoli. Su questi inquietanti presupposti, Greenpeace lanciò una delle più intriganti azioni di comunicazione mai promosse da un ong.

L’engagement iniziava con un’e-mail veicolata sui social network e tra la rete di attivisti, di questo tenore: «Ciao, se ti piace Star Wars, avrai sicuramente visto il nuovo spot della Volkswagen Passat: il protagonista è un piccolo Darth Vader che si esercita nell’uso della Forza. Oggi vogliamo presentarti il nostro contro-spot per svelare il Lato Oscuro di Volkswagen: la più grande azienda produttrice d’auto d’Europa è impegnata a bloccare l’adozione di leggi fondamentali per salvare il clima. Nella nostra video-parodia una legione di bambini di sette anni armati di spade laser, ognuno nelle vesti di un personaggio di Star Wars, sfida Darth Vader mentre una Morte Nera con il marchio Volkswagen minaccia di distruggere la Terra (…). Con la campagna ‘Volkswagen Darkside’ vogliamo convincere Volkswagen ad abbandonare il Lato Oscuro della Forza e a dare una chance al nostro Pianeta: è un’azienda così grande che potrebbe cambiare, con le sue politiche industriali, il volto del settore dell’auto a livello globale (…)».

Aderendo alla campagna, si attivava un sistema di engagement che portava l’utente a “salire d’importanza” su una “scala Jedi” virtuale, con tanto di gadget spediti a casa qualora Lui riuscisse a coinvolgere tramite i Social altri suoi amici nella “battaglia” contro le politiche ambientali di Volkswagen. Fu una vera e propria iniziativa di coinvolgimento degli stakeholder che – al grido di “Unisciti all’alleanza ribelle” – già nel corso della prima settimana riuscì a coagulare una community di oltre 1 milione di utenti: il clip di lancio su Youtube fu il video più condiviso al mondo dopo solo due giorni dal lancio. Il colosso automobilistico a quel punto contattò Greenpeace e iniziò a dialogare con l’Associazione sulle politiche ambientali e di efficienza energetica: un successo obiettivamente straordinario, seguito a ruota dall’apertura di tavoli di confronto anche con altri grandi operatori del settore automotive, i quali, per evitare di entrare nel mirino di Greenpeace, prudenzialmente decisero di giocare d’anticipo e contattare l’Associazione.

La terza case-history positiva marchiata Greenpeace che ci tengo a citare è quella della battaglia contro i moderni metodi distruttivi di pesca del tonno, che – uccidendo anche molte altre specie di pesci, alcune delle quali protette – mettono a serio rischio l’ecosistema marittimo. La campagna – ancora attiva, vai al sito – prevedeva un’articolata serie di azioni di sensibilizzazione e comunicazione, specie in formato video. Ma la cosa forse più interessante di questa operazione è che a tutti i sottoscrittori della campagna arrivava in automatico – gli indirizzi e-mail dei sottoscrittori della petizione Greenpeace sono visibili nel momento in cui essi aderiscono – una e-mail dalla “concorrenza”, ovvero da uno dei più grandi marchi internazionali di commercio di tonno in scatola…! Ecco in sintesi il testo della singolare, ma intelligentissima comunicazione dell’azienda: «Caro consumatore, (…) cogliamo l’opportunità per fornirle tutte le informazioni sul nostro impegno per una “Qualità Responsabile”. Bolton Alimentari da sempre è impegnata nella tutela della sostenibilità del tonno (…) Proprio per questo si è impegnata ad utilizzare il 45% di tonno pescato con metodi sostenibili entro il 2013, e a gennaio di quest’anno ha esteso l’obiettivo al 100% di tonno proveniente da pesca con metodi sostenibili entro il 2017. Inoltre, l’impegno di Bolton Alimentari a favore della pesca sostenibile ha portato alla fondazione nel 2009 della Issf – International Seafood Foundation, alla quale oggi aderisce il 70% dell’industria conserviera mondiale del tonno (…) La Issf ha come membri i più autorevoli scienziati e biologi marini e il World Wild Fund for Nature (Wwf): tramite l’Issf Bolton Alimentari partecipa al più grande progetto di ricerca scientifica volto a rendere più sostenibili le attuali tecniche di pesca del tonno (…). La pesca sostenibile è la principale area in cui Bolton Alimentari si è impegnata attraverso il progetto di Corporate Social Responsability “Qualità Responsabile” (…) Sul sito www.riomare.it potrà conoscere e approfondire tutti i principi e gli impegni di Bolton Alimentari (…). Riteniamo che gli sforzi che la nostra azienda sta compiendo confermino la serietà con cui Bolton Alimentari affronta questi impegni, adesso e in futuro, nella piena disponibilità di un dialogo aperto e costruttivo».

La pronta e puntuale strategia reattiva di Bolton fu da subito chiara: utilizzare gli stessi canali di comunicazione di Greenpeace per limitare i danni dell’azione di protesta dell’Associazione, o perlomeno reindirizzarla verso altri operatori commerciali.

 

A cura di ETicaNews