19 dicembre 2012 – Dove sono le aziende del lusso? O, ancor meglio, dove sono le aziende del made in Italy, dunque anche quelle che producono moda, arredo e design?

La scorsa settimana, Fondazione Sodalitas ha presentato a Bruxelles, in occasione dell’ “Enterprise 2020 Summit” dedicato all’attuazione della Strategia Europea sulla Csr a un anno dalla pubblicazione della III Comunicazione della Commissione Ue, il proprio contributo al progetto, presentando in anteprima un documento riassuntivo delle iniziative messe in campo, denominato “Italy for Enterprise 2020” .

Si tratta di una testimonianza importante, in quanto sintetizza e indica le linee guida della Fondazione promossa già nel 1995 da Assolombarda, e oggi ancora un punto di riferimento, per dimensioni, attività, network e legami con Bruxelles. Accanto alle direttrici di lavoro dell’organizzazione, inoltre, “Italy for Enterprise 2020” propone una serie di 18 best practice, riportando le esperienze di una quindicina di aziende (per alcune, infatti, è proposto più di un progetto).

Leggere il documento fornisce senza dubbio spunti di ottimismo e consente di toccare con mano quanto di concreto può riuscire a realizzare un sistema impresa-società che trovi la formula per integrarsi e agire.

Tuttavia, il documento è l’occasione per alcune riflessioni che aprono – o lasciano aperti – alcuni interrogativi. La prima sensazione che traspare riguarda la condivisione degli obiettivi. Da un lato c’è un’organizzazione che tenta di individuare quattro precise linee guida, sulle quale convogliare sforzi e risorse. Dall’altra c’è una sfilza di iniziative aziendali le più variegate, con accezioni che vanno dalla disclosure (è stato presentato come best practice anche il bilancio di sostenibilità) alla charity, dal “sempreverde” rispetto per l’ambiente, a effettivi tentativi di qualcosa che può apparire social business (o quanto meno attività social: interessante, dal punto di vista del coinvolgimento territoriale, il progetto In-formati di Unicredit). L’impressione, appunto, è che ci siano ancora gradi assai differenti di evoluzione e comprensione della materia. O, forse, gradi assai distanti di convinzione.

E da qui emergono le questioni più strutturali. Innanzi tutto, scorrendo le best practice di un documento che si chiama “Italy for Enterprise”, colpisce che meno del 50% delle aziende coinvolte sia italiano. Nel senso, sia un gruppo nazionale, e non una società o divisione di una conglomerata estera.

Inoltre, ci sono mancanze settoriali gravi. Il documento di Fondazione Sodalitas illustra quattro linee d’azione: l’integrazione e la valorizzazione delle risorse anziane in azienda; la condivisione degli obiettivi ambientali con territorio e pmi; la promozione di luoghi di lavoro accoglienti e salutari; lo sviluppo del marketing sostenibile. Ebbene, in particolare su quest’ultimo aspetto, mirante a promuovere e diffondere (per poi condividere) con il consumatore i propri valori di sostenibilità, ci si attende la partecipazione di aziende fortemente orientate al mercato. E, in particolare, poiché Milano è la capitale della moda e del mobile, una certa presenza dei “gioielli” del made in Italy.

La realtà, viceversa, è che moda e mobile, che sarebbero gli alfieri più importanti in questo genere di sfida, sono completamente assenti. Il fatto poi che i brand del lusso siano tra i maggiori investitori nel cosiddetto Cause related marketing , ossia iniziative in cui viene “usato” (e in qualche modo remunerato) un nome no profit da affiancare in specifiche attività, mentre invece restano lontani dal marketing sostenibile, denota ancora un’impostazione che suona come greenwashing .

Ma, forse, il problema è anche più generale. A Milano c’è la Camera nazionale della moda, c’è Sistema moda Italia, c’è il Salone del mobile. Eppure, in Fondazione Sodalitas, su 95 aziende, si contano due nomi che richiamano il made in Italy: Gucci e Monnalisa (abbigliamento per bambino). Il primo, per giunta, è di proprietà francese.

 

A cura di ETicaNews