6 settembre 2013 – Come spesso si ama dire nell’ambiente delle Rp, nelle aziende vecchio stile a direzione padronale, i due figli intelligenti si occupavano rispettivamente di vendite e di marketing e pubblicità, mentre alle relazioni esterne veniva invariabilmente destinato il figlio stupido o mediocre. Ma oggi le cose sono cambiate: l’asset intangibile di maggior valore per un’azienda è sicuramente la reputazione. E una cattiva comunicazione rischia di comprometterla pesantemente.

Il settore marketing è sempre stato la punta di diamante in ogni azienda: crea il bisogno che il settore vendite poi va a soddisfare, e un buon marketing fa ricchi gli shareholder. Il marketing e le vendite generano revenue, necessariamente sempre crescenti, condizionando i comportamenti di acquisto. Una campagna di marketing è vincente quando fa vendere; oggi, perché il domani non esiste. Questo atteggiamento, che rivela una sensibilità assai bassa per il crisis management, è propria anche dell’ufficio acquisti, che costituisce l’altra parte della corda, troppo spesso tesa fino a spezzarsi: comprare al minor prezzo possibile, così da aumentare il netto ricavo, e quindi i margini per gli azionisti e i bonus per i manager.

Il marketing è pressoché avulso da concetti come previsione di scenario, crisi reputazionale, origine delle forniture e introduzione di preoccupazioni di carattere etico nella vita dell’azienda. Vi sono infinite case-history che non fanno che dimostrare quanto una prospettiva esclusivamente a breve termine – tipica del marketing – possa trasformarsi in una delle principali cause di gravi crisi reputazionali per un’organizzazione, con pregiudizio significativo per le vendite e per il valore degli azionisti.

Nel Manuale del Sole 24 Ore sulla comunicazione di crisi si elencano i diversi motivi scatenanti di un evento in grado di pregiudicare la business continuity di un’organizzazione: non solo i disastri naturali o le pratiche finanziarie discutibili, ma anche – banalmente – l’errore umano, specie quello causato da una deliberata ricerca di scorciatoie rispetto ai normali processi aziendali o industriali, per comprimere i tempi, accrescere la produzione in un dato periodo o – ed è ciò che desidero mettere in evidenza – per aumentare il profitto. Molte crisi aziendali sono causate da cattiva comunicazione interna e da un raccordo non efficiente tra funzioni come il marketing, gli acquisti e l’area delle relazioni pubbliche e della comunicazione.

Celebre – e ancor oggi citata in molti corsi universitari – è ad esempio la case-history di Dove, il noto marchio di saponi e creme a base di olio di palma. Una campagna sociale decisamente apprezzabile nei contenuti, che invitava le mamme a farsi parte diligente nel non educare le proprie figlie adolescenti al mito della bellezza a tutti i costi, esponendole anche al rischio anoressia. Iniziativa opportuna e di successo, ma che ha sollecitato l’attenzione dei battaglieri attivisti di Greenpeace, che – indagando su dove si approvvigionasse Dove dell’olio di palma necessario a rendere così morbidi i suoi saponi – scoprirono una catena assai poco rassicurante di forniture con origine in Indonesia, dove territori immensi sono vittime di una deforestazione selvaggia capace di mettere a rischio in pochi anni l’intero ecosistema: ne è nato uno spot di critica molto ben viralizzato sul web e così ben riuscito da creare serio pregiudizio alla brand reputation della fabbrica di cosmetici.

Una seconda case-history è legata alla vicenda Costa Concordia. Le vie del marketing sono infinite, recitava il titolo di un quotidiano, commentando l’invito proposto a Francesco Schettino dal Comune di Numana: l’ex Comandante, sotto accusa per omicidio colposo plurimo, sarebbe stato contattato per un ingaggio finalizzato al rilancio del turismo della Riviera del Conero. Una trovata pubblicitaria dal sicuro impatto mediatico, ma che ha esposto quella pubblica amministrazione a un rebound negativo di polemiche da parte di molti cittadini fortemente irritati dalla leggerezza con la quale si è speculato sui 32 morti della tragedia dell’Isola del Giglio.

Un altro caso assai interessante è quello del marketing delle più importanti acque minerali italiane, costrette a dimostrare di essere eco dalla crescente sensibilità sociale degli acquirenti. Uno dei marchi più importanti proponeva l’eco-bottiglia Bio Bottle, comunicando «un risparmio di 176.800 barili di petrolio» a fronte di «un consumo di 650 milioni di Bio Bottle». Peccato che il dato di 650 milioni di bottiglie riguardasse l’intera produzione annuale, sulla quale le Bio Bottle incidevano solo per lo 0,2%. Un concorrente pubblicizzava la propria bottiglia come a «Impatto Zero», grazie alla convenzione con Lifegate per la compensazione delle emissioni nocive mediante riforestazione di zone a rischio nei paesi in via di sviluppo. Peccato che l’azione di compensazione promossa dall’azienda sia durata solo due mesi, tempo del tutto insufficiente per annullare l’impatto dell’intera produzione annuale sull’ambiente: immediata la reazione dell’autority, che accusò l’azienda di pubblicità ingannevole, e conseguenti buzz negativi – a decine di migliaia – sui social network. Anche un terzo concorrente – grande marchio delle minerali – venne sanzionata per la sua linea eco-friendly, che promuoveva una riduzione della quantità di plastica per bottiglia, in varie percentuali in base alla dimensione delle stesse. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato verificò la veridicità dei dati divulgati dall’azienda, non riscontrando elementi che certificassero l’autenticità del messaggio, e la polemica scoppio virulenta sul web.

Vero è che il turn-over di personale nel settore marketing è assai elevato: tra 18 mesi probabilmente lavorerò altrove, allora perché sacrificare le revenue di oggi in virtù di principi di carattere etico e di una visione responsabile delle strategie aziendali, che semmai avrà un ritorno ce l’avrà dopo anni e anni? Ogni strumento di comunicazione è utile e funzionale e genera un ritorno in vendite qui e ora: ragionamento assai miope, che non tiene conto dell’asset intangibile di maggior valore per un’azienda oggi giorno, che è sicuramente la reputazione. Come nel XXI secolo questa lapalissiana evidenza possa ancora essere ignorata dagli esperti di marketing resta per me un assoluto mistero.

Luca Poma

 

A cura di ETicaNews