9 gennaio 2013 – Niente Tobin tax per la finanza etica. È forse questo il lato più positivo della tassa sulle transazioni finanziarie (Ttf) introdotta per la prima volta in Italia col Ddl stabilità a fine 2012, che ha per il resto lasciato parecchio amaro in bocca.

La Ttf che partirà in Italia dall’1 marzo (per le azioni) e dall’1 luglio (per i prodotti finanziari derivati) ha infatti raccolto parecchie critiche, anche se va detto che il suo definitivo sdoganamento, dopo quarant’anni di dibattiti imbevuti di ideologia, ha un valore simbolico enorme. Le critiche sono state mosse in particolare da chi per anni ne ha chiesto l’introduzione per riportare un po’ di regole sui mercati finanziari, riprendere alla finanza almeno una parte delle enormi risorse che aveva ricevuto, grazie ai salvataggi effettuati dagli Stati, e invertire finalmente la tendenza della deregulation selvaggia che ha imperato negli ultimi decenni in Occidente.

Come ha fatto notare la Campagna ZeroZeroCinque, la formulazione italiana della Ttf ha due grandi difetti. Il primo è che non è applicata sulla singola transazione ma sui saldi giornalieri, dunque manca completamente l’obiettivo di costituire un freno al numero eccessivo di transazioni. Anche se prevede una penalizzazione, per gli ordini annullati o modificati oltre una certa soglia, per il cosiddetto trading ad alta frequenza o high frequency trading (Legge 228/2012, comma 495), la cui crescente diffusione anche in Italia secondo le stesse authority finanziarie può accentuare i rischi sistemici. Il secondo è che la tassa non interessa la grande massa dei derivati più speculativi, ma solo quelli che hanno come sottostante le azioni, che anche in Italia sono solo una piccola parte di quell’immenso castello di carte finanziario che a livello mondiale supera di svariate volte lo stesso Pil del pianeta.

A parte i difetti, la Ttf varata dal governo ha previsto tutta una serie di esclusioni: non verrà applicata, per esempio, agli enti di previdenza obbligatoria e alle forme pensionistiche complementari, ai market maker, alle operazioni fra società fra cui sussiste un rapporto di controllo. E per l’appunto, citando testualmente (comma 494, lettera e), «alle transazioni e alle operazioni relative a prodotti e servizi qualificati come etici o socialmente responsabili»: esclude, cioè, anche la finanza etica.

Questa decisione è un riconoscimento del «ruolo non speculativo dei fondi etici», commenta Alessandra Viscovi, direttore generale di Etica Sgr. Che dichiara di «apprezzare la scelta, effettuata dal legislatore, di riconoscere che gli investimenti integralmente focalizzati su responsabilità sociale e rispetto dell’ambiente, rappresentano un motore per la ripresa dell’economia del nostro Paese».

L’elemento positivo dell’esenzione dalla Tobin tax, però, per la finanza etica nasconde allo stesso tempo un rischio. Per definire se un prodotto sia effettivamente etico o Sri (socialmente responsabile), la legge rimanda infatti al Testo unico della finanza, all’articolo relativo alla finanza etica, e al conseguente regolamento applicativo della Consob (art. 89-90). Ma questi testi di legge, che prevedono obblighi informativi e di rendicontazione, lasciano un po’ tutto all’istituzione finanziaria che propone sul mercato il prodotto, chiamata a offrire più che altro informazioni supplementari su criteri, processi, sistemi di controllo che giustificano il fatto che un prodotto sia etichettato come etico o Sri. Senza che vi sia un’effettiva verifica o definizione di particolari requisiti da soddisfare.

Le maglie dei regolamenti, insomma, sembrano un po’ larghe. E potrebbe non essere così difficile intrufolarvisi anche per chi, ingolosito dal beneficio fiscale, fino a oggi non si era mai segnato di varcare la soglia della finanza Sri.

«Ci auguriamo che tale beneficio – sottolinea infatti Simonetta Bono di Vigeo Italia, che comunque plaude anch’essa al legislatore perché l’esclusione dei fondi Sri dalla Tobin tax è coerente con la natura non speculativa di questi veicoli d’investimento – non generi una corsa alla finanza socialmente responsabile soltanto di facciata, ma che si accompagni ad un’offerta di prodotto con contenuti realmente ispirati a principi di sostenibilità e ad una presa di coscienza da parte del risparmiatore sulla qualità di questi investimenti finanziari».

C’è motivo, insomma, di nutrire qualche timore che il mercato Sri possa essere inquinato da prodotti che di etico hanno solo l’etichetta ma non la sostanza. Rischiando di confondere i risparmiatori e di gettare alle ortiche gli importanti sforzi di trasparenza fatti negli anni da molti operatori di questo mercato, che peraltro ancora stenta ad affermarsi in Italia.

Per prevenire questo rischio, qualcosa in effetti si sta muovendo. «Stiamo attivando un gruppo di lavoro – spiega Davide Dal Maso, segretario di Ffs-Forum per la finanza sostenibile – per approfondire la questione definitoria e studiare la possibilità di suggerire dei criteri minimi. Dal punto di vista di un regolatore pubblico, invece, ricordando comunque che in nessun Paese esiste uno standard che stabilisca quali debbano essere i requisiti di contenuto di un prodotto Sri, andrebbe meglio investigato quali strategie Sri siano più coerenti con gli obiettivi delle politiche pubbliche e quindi meritino un beneficio fiscale».

Chissà se qualcuno di coloro che si candidano alla guida del nostro Paese per il prossimo quinquennio ha messo in programma, o in agenda, qualcosa del genere.

Andrea Di Turi

 

A cura di ETicaNews