30/06/2014 – La Cina si è aperta agli investimenti esteri, ma la finanza sostenibile è ancora troppo piccola rispetto al gigante asiatico. Tuttavia, qualche segnale positivo si muove. Nello sforzo di rendere il Paese più attrattivo sui mercati internazionali, l’impegno intrapreso dal governo di Pechino per la tutela ambientale e nella lotta alla corruzione potrebbe rivelarsi la via giusta per convincere gli investitori più attenti e selettivi.

Lo conferma Aldo Bonati, responsabile ricerca di Ecpi Group, intervenuto alla presentazione del libro «Sviluppo sostenibile e Cina» di Nicoletta Ferro (edizioni L’Asino D’oro). «A fine dicembre 2013, Bloomberg rilevava che quasi il 10% delle quotate che pubblicano informazioni Esg sono cinesi – afferma Bonati -. La Cina si posizionava così come terzo Paese nella classifica delle società che rendicontano aspetti sociali e ambientali accanto a quelli economici. Va sottolineato che la precisione di questi dati da parte delle corporation cinesi è ancora bassa, ma sicuramente si sta facendo strada la necessità di rispondere a richieste più sofisticate da parte del mercato finanziario».

Un altro esempio di questo trend arriva da un pioniere degli investimenti sostenibili. La banca svizzera J. Safra Sarasin, infatti, ha pubblicato un report sullo stato di inquinamento idrico della Cina e sugli sforzi messi in atto dal governo per migliorare la gestione delle acque. Ribadendo l’opportunità che gli investitori stranieri richiedano, nelle proprie analisi preliminari, informazioni sempre più dettagliate su fattori Esg.

In particolare, sembra che la gestione idrica avrà un impatto pesante sugli economics dei prossimi anni.

Il governo cinese sta infatti affrontando con decisione due problemi strutturali: la desertificazione – dovuta in parte a fattori climatici e in parte a cattiva gestione della rete (come in tutta l’Asia) – e inquinamento, legato per il 70% a pratiche agricole ad alto impatto. Fattori aggravati dall’impennata dell’economia di consumo e dal processo di urbanizzazione in corso, che mettono sotto pressione tutto il sistema.

Secondo la Banca Mondiale, lo stress idrico costa già il 2,3% del Pil cinese (diviso tra un 1,3% per la desertificazione e un 1% per l’inquinamento). I problemi legati alla mancanza d’acqua che le aziende si trovano ad affrontare sono di vario tipo, dalle interruzioni logistiche al blocco di alcuni asset, e si aggravano in settori idrovori come il comparto alimentare, cartario, chimico e metallurgico. Un altro fronte di rischio finanziario è l’aumento delle tariffe, che dal 2001 al 2013 sono già incrementate del 10 per cento. Il governo cinese, infatti, dovrà in qualche modo sostenere i costi infrastrutturali, e già in passato ha scaricato sulle bollette elettriche gli incentivi alle rinnovabili.

L’istituto finanziario svizzero ha quindi voluto ribadire che è opportuno che gli investitori non sottovalutino le implicazioni del contesto ambientale in cui operano le imprese e chiedano informazioni dettagliate sui fattori di rischio che lo stress idrico potrà generare sui bilanci. Ancora una volta, la finanza potrebbe fare da traino alla sostenibilità.

Emanuela Taverna

A cura di ETicaNews