11 ottobre 2012 – Licenziare è umano. Farlo quanto si fanno utili record un po’ meno. Farlo passare in sordina, proclamandosi alfieri della «cultura della responsabilità sociale» rischia di apparire diabolico. Il ruolo del ”diavolo” tocca a Takeda Italia. Dopo l’acquisizione di Nycomed, terminata alla fine del 2011, la filiale italiana della più grande azienda farmaceutica giapponese vuole lasciare a casa 124 lavoratori della società acquisita che ha sede a Milano e 170 dei suoi (la maggior parte informatori farmaceutici) a Roma, rispetto a un organico complessivo di 800 dipendenti in Italia tra le società. Di fatto, quasi il 40% della forza lavoro. Questo, appunto, nonostante bilanci spettacolari e, appunto, l’adozione di «una cultura di responsabilità sociale dell’impresa che si mantenga sensibile alle preoccupazioni sociali, nello svolgimento delle proprie operazioni commerciali e nei rapporti con le parti interessate. Tra le attività riconducibili a un principio di responsabilità sociale possono essere citate diverse iniziative che si rivolgono prima all’interno dell’azienda – alle proprie risorse umane – per poi passare all’esterno della stessa, a livello locale, nazionale e internazionale».

Gli affari vanno male? In Italia c’è crisi? A guardare il bilancio annuale chiuso il 31 marzo 2012 non sembrerebbe affatto: i conti presentano un utile di esercizio di 30.600.800 euro (il miglior risultato di sempre da quando nel 1982 il big giapponese è nel nostro Paese) dopo aver rilevato imposte sul reddito dell’esercizio per 21.495.423 euro. Come si legge sempre nel sito ufficiale, Takeda rappresenta una delle maggiori realtà dell’industria farmaceutica italiana, con un sito produttivo, posto in Piemonte, a Cerano (No), all’avanguardia per tecnologie e tutela dell’ambiente, che garantisce la produzione per l’Italia e per le consociate europee ed extra-europee del gruppo.

Per Takeda Italia, dunque, si tratta di una disonorevole “macchia” in termini di Csr sociale. Anche se, quasi certamente, non prevista. Il colosso nipponico, con l’acquisizione a livello globale del gruppo svizzero Nycomed, aveva forse sbagliato i conti in termini di sovrapposizioni nazionali, soprattutto alla luce degli effetti delle liberalizzazioni farmaceutiche. Con il decreto Balduzzi, spiegano i sindacati, cambierà il lavoro degli informatori farmaceutici che non andranno più a visitare singolarmente i medici di base, ma faranno una sorta di presentazione collettiva. Per cui, di fatto, ne occorreranno meno. Grazie alle trattative sindacali, due giorni fa è stato raggiunto un accordo con Nycomed Milano (le procedure di licenziamento Nycomed e Takeda sono separate): su 124 licenziamenti sono stati recuperati 16 lavoratori, mentre per i rimanenti sono previste incentivazioni all’esodo su base volontaria e corsi formazione per le ricollocazioni anche esterne in società terze che applicheranno il contratto chimico farmaceutico. La trattativa sindacale, invece, è arrivata a un punto critico sul fronte romano. Takeda vuole imporre le medesime condizioni sostanziali e normative dell’accordo milanese, ma i sindacati non sono d’accordo e ormai sono già trascorsi i 75 giorni di tempo per poter far partire le lettere di licenziamento. Le organizzazioni sindacali (Ugl, Cgil, Cils e Uil) hanno deciso di tenere un’assemblea lunedì mattina a Roma con i dipendenti per far decidere loro. Sempre lunedì ore 15 ci sarà un incontro in Regione Lazio per la firma dell’accordo o la rottura delle trattative, a seconda dell’esito dell’assemblea.

Se il caso di Takeda Italia sorprende per l’impegno nel sociale che l’azienda pubblicizza, è pur vero che il settore è in crisi. Ieri Menarini, multinazionale del settore farmaceutico con sede a Firenze, ha annunciato mille esuberi su un totale di 3.600 dipendenti in Italia. La “colpa” – in base a quanto dichiarato dall’azienda è della legge del 15 agosto che impone ai medici di indicare nella prescrizione il farmaco generico e che ha causato un crollo di fatturato.

di Fausta Chiesa

A cura di ETicaNews