4 febbraio 2013 – In gennaio, una banca locale dell’Emilia-Romagna, Banca Interprovinciale, senza attendere gli sviluppi della normativa in materia, ha lanciato quello che è probabilmente il primo crowdfunding italiano appoggiato e gestito da un istituto di credito. È un segnale forte. Portato, venerdì scorso, all’open hearing organizzato da Consob, la quale sta tentando di capirci qualcosa, essendo stata delegata (dal Decreto Crescita 2.0) a definire l’impianto di funzionamento (regole e vigilanza) dell’equity based crowdfunding. La commissione nazionale per le società e la Borsa si trova a mediare tra due posizioni antitetiche: i puristi del crowdfunding “libero”, in quanto (è l’ipotesi di partenza di questa corrente di pensiero) orientato a raccogliere denaro da soggetti mossi da intenti più valoriali che economici; i promotori di un crowdfunding strettamente regolato, perché (è la tesi di questo secondo schieramento) finalizzato a movimentare ampie risorse (fino a 5 milioni di euro), dunque di costituire un meccanismo che deve essere protetto da speculazioni e che deve dare garanzie agli erogatori-azionisti.

La delicatezza della scelta di Consob va al di là della distanza che esiste oggi tra le due correnti sul crowdfunding. La scelta, infatti, sottintende una posizione assai più vasta sul piano politico-strategico nazionale. La dicotomia del crowdfunding, infatti, appare la perfetta trasposizione della dicotomia esistente nell’ambito del social business. Da una parte i fautori di un’imprenditoria sociale ancorata ai pilastri del non profit e del terzo settore, dunque improntata principalmente a uno spirito volontaristico e valoriale. Dall’altra, i promotori di una spinta in avanti, in direzione di un social business che sappia sfruttare la spinta all’impact investing, che dunque apra al capitale e non rinneghi il concetto, mediato da principi sostenibili, dell’utile di impresa.

In questo incrocio di dicotomie, fino a oggi, il social business è stato assai poco valorizzato nell’ambito della discussione sul crowdfunding e, più in generale, da quella sulle agevolazioni delle start up innovative per le quali il crowdfunding è stato immaginato. Eppure, il Decreto Crescita 2.0 fa esplicita menzione, accanto alle cosiddette imprese innovative, anche di quelle a “vocazione sociale” (articolo 25 comma 4), da intendersi come quelle che «operano in via esclusiva nei settori indicati all’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 155». È interessante notare come il legislatore abbia sì fatto un esplicito riferimento alla discussa legge 155, ma contenendolo a un solo comma, senza menzionare altre caratteristiche, come il divieto di distribuire utili (articolo 3 della 155). Una dimenticanza? O un tentativo di aprire i baluardi dell’impresa sociale a forme di finanziamento “capitalistiche”?

Questa opportunità, appunto, non sembra essere stata accolta nelle discussioni avviate su diversi tavoli. Sembra che i riflettori siano riservati unicamente al sogno di un’Italia che, nei prossimi anni, darà vita a imprese in grado di rivaleggiare con Apple, Google o Microsoft, una sorta di silicon peninsula. Le parole chiave sono “tecnologia” e “ricerca”. Latita la parola “sociale”. Si prenda l’ottima iniziativa organizzata dalla Camera di commercio di Milano per il prossimo 19 febbraio: “Tavola rotonda Start up e Crowdfund Investing in Italia”. È stata dedicata una pagina per illustrare l’evento, finalizzato a “una discussione pubblica” sul tema, ed stata contestualmente presentata una ricerca sulle piattaforme italiane del crowdfunding. Ma lo spazio dedicato al social business è pressoché nullo.

Eppure, sul fronte del social business qualche operazione comincia a chiudersi. E gli operatori sembrano prendere coraggio. In gennaio, Make a Change ha prodotto un interessante position paper (“Il business sociale: un nuovo strumento per i futuri governi del Paese”) e l’ha inviato direttamente al governo. Il documento, si legge, «ha lo scopo di “aggiungere un pezzo” che manca al quadro completo degli strumenti di governo nel nostro Paese (a livello centrale e locale) anche in coerenza con le nuove direttive dell’Unione Europea in ambito di innovazione sociale e imprenditoria sociale». L’ambizione, prosegue il paper, è quella di «tracciare una strada sulla quale costruire le infrastrutture normative e di mercato per rafforzare il cosiddetto “welfare privato sostenibile (o business sociale) aprendo l’opportunità a nuovi modelli di impresa capitalistica a finalità sociale e ambientale».

Il paper è una delle poche voci che ha richiamato l’opportunità “nascosta” nel crowdfunding per il business sociale.

Tornando alla scelta di Consob, dunque, questa sottintende anche il “se” e “come” impostare un crowdfunding a misura di “impresa capitalistica sociale”. Se e come impostare un nuovo modello di politica economica sociale. Un modello che parta, per usare le parole del professor Giulio Sapelli, tra i contributori del position paper, dalla consapevolezza «di un’economia polifonica, nella quale venga superata la visione monistica dell’approccio economico-capitalistico per aprirsi a nuovi modelli e in particolare a quelli caratterizzati da una forte componente umanistica e sociale».

Quando si parla di innovazione, appare sempre più difficile immaginare l’Italia come una penisola di garage in cui nascono le Microsoft o le Apple del futuro. Ma risulta assai più convincente immaginarla come una penisola dove, alla stregua di un Rinascimento moderno, ci si inventino forme polifoniche di economie condivise.

 

A cura di ETicaNews