28 maggio 2013 – La tragedia in Bangladesh scuote la finanza e mette a nudo un fattore di rischio nuovo, destinato a diventare cruciale per le aziende che delocalizzano: la violazione dei diritti umani. Dopo il crollo di uno stabilimento tessile dove sono morti 1.127 lavoratori, un gruppo di investitori ha fatto un appello ai produttori e ai distributori di abbigliamento affinché firmino uno specifico accordo, chiamato Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh, proposto dalle Ong e dall’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro). L’accordo chiede di mettere in atto azioni e misure per evitare la perdita di altre vite migliorando la sicurezza e prevenendo gli incendi. Il gruppo di investitori include 200 firmatari che rappresentano 1.500 miliardi di dollari di asset in gestione.

L’appello, ma anche l’effetto che la tragedia ha avuto sull’opinione pubblica, dimostrano che la violazione dei diritti umani sta diventando un fattore chiave per la reputazione delle aziende. La tutela dei diritti umani è una responsabiità di ogni governo. Ma è ormai evidente che anche le imprese sono sempre più coinvolte. Come dimostra il report “Human rights human wrongs – An emerging corporate risk“ dell’organizzazione ecclesiastica Amity Insight.

E, nell’era della delocalizzazione, produrre e operare in Paesi in cui anche i diritti umani non sono tutelati, è più frequente. Inoltre l’allungamento della catena di fornitura fa sì che questo rischio aumenti. Secondo l’Organizzazione mondiale del commercio, l’export mondiale di prodotti manifatturieri è aumentato del 18% dal 2009 al 2010, raggiungendo il valore di 10.000 miliardi di dollari. L’export asiatico è aumentato del 30%, l’India ha aumentato del 40% le esportazioni del settore dell’abbigliamento, che assieme ad altri settori (minerario, infrastrutture, legname, alimentare) è uno di quelli più a rischio di incidenti.

Il report identifica 157 Paesi accusati di violare i diritti umani. Il 48% dei 197 Paesi presi in considerazione nel report – alcuni dei quali non appartengono all’Onu – espone le aziende al rischio di essere riconosciuta complice della violazione dei diritti umani.

Più la produzione è delocalizzata e affidata a terzi, più è difficile avere il controllo della tutela dei diritti umani. Le aziende – sostiene il report – devono considerare il rischio di poter essere associate alla violazione dei diritti umani, come è successo in passato a marchi mondiali, e anche di vedersi ritirata la licenza di poter produrre nel Paese in questione. E per questo diventa sempre più determinante il ruolo della supply chain.

«Ci sono stati numerosi esempi di aziende che hanno avuto grandi danni alla loro immagine a causa di un controllo insufficiente dei fornitori, come Nike e Gap – si legge nel report – . Apple e altri continuano a essere associati a condizioni di lavoro precarie a causa del rapporto con la cinese Foxconn, che sforna i componenti di tutta la linea dei prodotti di Cupertino, e dove si sono verificati casi di suicidi. Accuse di sfruttare il lavoro minorile sono piombate su Nestlé e Cadbury ».

Le aziende hanno la possibilità di ridurre al minimo il rischio, perché dal giugno del 2011 esiste un documento dell’Onu, il “Guiding principles on business and human rights“, che identifica i princìpi anche operative che le imprese dovrebbero seguire.

Per gli investitori Sri (e non solo), diventa una garanzia sapere che le aziende in cui hanno allocato il proprio capitale adottano questi modelli di “protezione” contro i rischi di una filiera contraria ai diritti umani.

Fausta Chiesa

 

A cura di ETicaNews