20 dicembre 2012 – La crisi finanziaria? Non è stata causata da un problema di mancanza o di incomprensione della disclosure. E nemmeno è colpa degli investitori retail, incapaci di comprenderne il significato, come hanno sostenuto coloro che in questi anni hanno invocato una maggiore istruzione finanziaria e regole più semplici. Ma piuttosto è colpa dell’ansia di accaparrarsi “the hot new thing”, l’investimento del momento, da parte degli investitori istituzionali cui erano in realtà destinati i prodotti al centro dello tsunami finanziario: i Cdo (collateralized debt obbligations).

È questa l’analisi di Clare Hill, professore di diritto societario alla University of Minnesota Law School’s, e di Steven M. Davidoff, professore di Legge e Finanza alla Ohio State University College of Law. I quali nello studio “Limits of disclosure” hanno analizzato i limiti della disclosure esplorandone due casi in cui si pensa abbia fallito, anche se per ragioni molto differenti: 1) i Cdo, ossia collateralized debt obbligations (obbligazioni che hanno come garanzia un debito) come Abacus e Timberwolf, venduti negli anni immediatamente precedenti alla crisi; 2) le remunerazioni dei manager.

GLI INVESTITORI SNOBBANO LA DISCLOSURE
Nel primo caso si è parlato molto della complessità dei prodotti venduti. E qualcuno ha notato che la disclosure era qualche volta falsa o incompleta. Così per molti, a prescindere da qualsiasi altra lezione della crisi, la priorità è diventata migliorare la disclosure. Cavallo di battaglia: l’incapacità dell’investitore comune di capire o persino di leggere il documento. Il che significa, naturalmente, aprire la strada a rimedi come una disclosure più completa e più semplice, e una maggiore educazione finanziaria.

«Che la disclosure possa non funzionare come ci aspettiamo per l’investitore medio non è una novità – commenta Davidoff – . Ma i titoli in questione nella crisi non erano generalmente venduti a investitori retail, che ci si potrebbe aspettare non leggano o non capiscano la disclosure. Piuttosto, sono stati per la maggior parte venduti a istituzioni qualificate». E il sistema si basa sull’assunto che investitori evoluti la leggano e la capiscano. Se non la dovessero capire, come alcuni commentatori hanno suggerito sia successo in questo caso, dovrebbero per lo meno esserne consapevoli. E non dovrebbero comprare nulla almeno finché non capiscano di saperne abbastanza per farlo.

«Abbiamo analizzato la documentazione dei Cdo – racconta Davidoff – e se la disclosure non era certo perfetta, però accendeva numerosi semafori rossi. E avrebbe dovuto metterli sull’allerta più di quanto ha fatto o altrimenti spingere a indagini ulteriori. Gli investitori avevano ampie possibilità di interagire con i venditori, facendo due diligence fino a quando non avessero ritenuto di avere sufficienti informazioni per fare sensibili decisioni di investimento. Ma questi sofisticati investitori hanno fatto spesso soltanto controlli sbrigativi e inadeguati».

Insomma, con questo esempio sui Cdo gli autori vogliono far notare che il ruolo della disclosure nelle decisioni di investimento è molto più limitato e molto meno immediato di quanto in genere si assume.

Già, perché gli investitori, anche qualificati ed esperti, non si approcciano a un titolo in maniera prudente e neutrale con l’obiettivo di leggerne attentamente la disclosure prima di decidere se investirci o meno. In realtà, sono impazienti di comprare “the hot new thing”, l’investimento del momento.

«Non vogliamo spiegare quali sono le motivazioni degli investitori – precisa Davidoff – ma sottolineare che la disclosure non ne ha motivato sufficientemente il comportamento. E non solo nell’attuale crisi. E proprio il complesso ruolo che la disclosure gioca nelle decisioni degli investitori è uno dei suoi limiti. Limiti che riflettono la complessità del processo decisionale delle persone».

«Perché la disclosure dovrebbe funzionare?», si chiedono gli autori. In linea di principio informazioni migliori dovrebbero condurre a decisioni migliori, ma in realtà, altri fattori possono essere più importanti. Come dimostra proprio il caso dei Cdo.

I CEO (CONCORRENTI) RINGRAZIANO
Il secondo esempio riguarda la disclosure delle (alte) remunerazioni dei manager. Chi le paga sono gli azionisti. Così, in molti ritengono che dar loro più informazioni dettagliate li induca a cercare di ridurre i compensi, magari facendo pressione sulle società o vendendo le azioni in quelle società che elargiscono alte paghe ai manager. E allo stesso tempo si ritiene che le società, anticipando questa reazione, taglino i compensi preventivamente. Questa teoria riguardo a un uso più ampio della disclosure nella remunerazione dei manager non coincide con i fatti: è difficile misurarlo, ma sembra che i compensi siano saliti piuttosto che scesi. «La nostra spiegazione è che le informazioni, anche se più ampie, siano state insufficienti a indurre all’azione gli azionisti, ma abbastanza da indurre all’azione i top manager delle altre aziende, che hanno messo pressione sui loro board per un aumento anche delle loro paghe», commenta Davidoff.

La soluzione? Difficile da trovare. E soprattutto da approvare all’unanimità. Puntare sulla disclosure può così dare la sensazione di “fare qualcosa” quando nessuno riesce a essere d’accordo su nient’altro. E non ne traggono beneficio solo i policy maker. L’enfasi sulla disclosure afferma una visione per tutti rassicurante: chi perde soldi sui propri investimenti può dire a sé e agli altri che se gli fosse stato detto di più non avrebbe comprato quei titoli; chi opera sui mercati può dire a sé e agli altri di aver seguito il modus operandi, leggendo i documenti di disclosure e prendendo decisioni su questa base.

«La verità – conclude Davidoff – è che la disclosure è troppo spesso una strada conveniente per i policy maker e tutti coloro che sperano di fare qualcosa, ma che si aggrappano a convinzioni rassicuranti di fronte a un cattivo esito. I limiti della disclosure rivelano di nuovo la necessità di una visione con più sfumature della natura umana che può meglio indirizzare le decisioni di policy».

Elena Bonanni

 

A cura di ETicaNews